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Category: Rassegna Stampa

SI AGGIORNANO LE TABELLE PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO ALLA PERSONA

SI AGGIORNANO LE TABELLE PER IL RISARCIMENTO DEL DANNO ALLA PERSONA

di Bianca Pascotto

Nei mesi di ottobre e novembre sono stati pubblicati gli aggiornamenti degli importi risarcitori del danno non patrimoniale alla persona.

Le novità hanno interessato:

  1. le tabelle del danno biologico relativo alle cosiddette “micropermanenti” di cui all’art. 139 del codice delle assicurazioni private;
  2. le tabelle del Tribunale di Roma che riguardano tutto l’universum del danno alla persona, comprendendo al loro interno il danno biologico, il danno morale, il danno da perdita del rapporto parentale, il danno catastrofale e il danno da morte per causa indipendente.

1) LE MICROPERMANENTI

Con decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 247 del 21 ottobre, il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha aggiornato, ai sensi dell’art. 139 comma 5 cod. ass., gli importi del risarcimento del danno biologico per le lesioni di lieve entità (dal 1 al 9% di invalidità permanente), adeguandoli in ragione dell’incremento dell’indice Istat relativo al mese di aprile 2023.

Il valore del primo punto di invalidità, a decorrere dal mese di aprile 2023, è pari ad € 939,78, mentre l’importo giornaliero per l’inabilità assoluta, è di € 54,80, con una variazione in aumento del 7,9% rispetto ai valori del 2022.

Ricordiamo che detti importi e la relativa tabella si applicano esclusivamente ai casi di risarcimento da lesioni lievi provocate a seguito di incidente stradale, nonché a quelle conseguenti a errore/responsabilità medica.

2) LE TABELLE DEL TRIBUNALE DI ROMA

Il 10 novembre hanno visto la luce le nuove tabelle del Tribunale di Roma, anch’esse aggiornate negli importi, fermi al 2019, ed “impreziosite” da alcune modifiche rispetto al testo previgente.

Queste tabelle si pongono in contrapposizione con quelle stilate dal Tribunale di Milano e vengono utilizzate soprattutto per quanto concerne (i) la liquidazione del danno per la perdita del rapporto parentale – sia come danno diretto conseguente alla perdita di un proprio famigliare, sia come danno “riflesso” derivante dalla modificazione peggiorativa del famigliare della vittima primaria lesa – (ii)  il calcolo del danno da morte nei casi di decesso per motivi indipendenti e diversi dall’originario fatto illecito produttivo del danno.

Il Tribunale di Roma ha applicato un aumento del 15,8% rispetto agli importi pregressi, in ragione dell’incremento dell’indice Istat nel triennio 2019-2022, attualizzando così il valore della inabilità temporanea giornaliera assoluta in € 128,07 ed in € 11.356,15 il valore del punto per il danno da perdita del rapporto parentale.

Gli ulteriori importi che riguardano il quantum del danno “riflesso” e del danno catastrofale, nonché il danno biologico da lieve entità, sono stati conseguentemente aggiornati alla percentuale sopra indicata.

Sono, poi, state introdotte alcune modifiche:

A) previsione di un sistema annuale ed automatico di adeguamento dei citati importi sulla base degli indici Istat;

B) modifica del calcolo del danno morale che prevede, come nella precedente tabella, l’applicazione di una percentuale sul valore del danno biologico, ma detta percentuale viene rimodulata tra un minimo, un medio ed un massimo in relazione al crescere dell’invalidità permanente;

C) per il danno da perdita del rapporto parentale, si è modificato il “range” della fascia d’età cui applicare il punteggio riducendolo dai previgenti 20 a 10 anni (0-10, 11-20, 21-30 etc.).

Le tabelle del Tribunale di Roma appaiono più complete, rispetto alle loro antagoniste del Tribunale di Milano e c’è da chiedersi fino a quanto si assisterà a questa differenziazione che comporta disparità di trattamento, confusione e maggior accesso alle aule giudiziarie.

Rispetto a quanto accade nel mondo naturale, la “giungla” dei vari sistemi di liquidazione gode ancora di ottima salute.

FONTE:

PARCHEGGIO A PAGAMENTO CON SBARRA – Il gestore è sempre responsabile quale custode

di Bianca Pascotto

I proprietari o i gestori dei parcheggi a pagamento il cui accesso è meccanizzato con sbarra o riconoscimento elettronico della targa, non possono dormire sonni tranquilli in caso di danneggiamenti o, soprattutto, di furti perpetrati ai veicoli ivi parcheggiati.

I costi che sopportano per le insegne apposte ai varchi d’entrata che riportano la dicitura “parcheggio non custodito” et similia, è opportuno che li investano in coperture assicurative, dato che recente sentenza della Cassazione[1] ha confermato la responsabilità per custodia che incombe a loro carico, senza possibilità di elisione alcuna.

IL CASO

Alfa spa subisce il furto del proprio veicolo parcato nel parcheggio dell’aeroporto di Milano Malpensa e cita avanti il Tribunale di Mantova, Beta quale gestore del citato parcheggio per ottenere il risarcimento dei danni. Il Tribunale rigetta la domanda, definendo il contratto di parcheggio de quo privo dell’obbligo di custodia.

L’appello non gode di sorte migliore in quanto la Corte, in adesione all’orientamento minoritario che qualifica il parcheggio meccanizzato come un contratto atipico di locazione di uno spazio per la sosta temporanea (esente da custodia), anzichè un contratto di deposito (con obbligo del depositario di custodire e restituire il bene), ritiene che il caso concreto debba essere inquadrato come semplice messa a disposizione di uno spazio per la sosta del veicolo, anche in ragione delle circostanze fattuali che non potevano ingenerare nell’utente il convincimento che la custodia fosse compresa nel pagamento del parcheggio.

La Corte viene interessata dall’impugnazione della sentenza, censurata da Alfa con due motivi di ricorso

LA SOLUZIONE

Alfa lamenta in primo luogo che la Corte d’Appello ha errato nel sussumere il contratto del quo nella fattispecie della locazione atipica, posto che la consolidata giurisprudenza, in particolar modo le specifiche pronunce afferenti ai parcheggi dell’aeroporto di Malpensa, ha sempre ravvisato sussistere l’obbligo di custodia, trattandosi di contratto di deposito.

Quand’anche, poi, le condizioni generali del contratto di parcheggio prevedano l’esclusione della responsabilità da custodia, detta clausola avrebbe natura chiaramene vessatoria.

In secondo luogo l’asserita accettazione/conclusione del contratto di parcheggio atipico e della ivi contenuta clausola di esclusione della responsabilità che la Corte individua sorgere nel momento di ritiro del ticket e di immissione della vettura nel parcheggio, è del tutto erronea.

Per Alfa il contratto di parcheggio non si perfeziona il quel momento, ma necessariamente prima ovvero nel momento in cui l’utente “si trova innanzi alla sbarra d’accesso, poiché non potrebbe sottrarsi alla conclusione del contratto, invertendo la marcia, sicché la clausola di esclusione della responsabilità avrebbe natura vessatoria”.

I motivi sono fondati e vengono accolti.

La Corte ribadisce che il contratto di parcheggio a pagamento meccanizzato, è senz’altro un contratto atipico ma, sotto il profilo sociale, assolutamente tipico per la funzione che esso assolve e per il “legittimo affidamento ingenerato nell’automobilista”.

L’offerta contrattuale del gestore consiste nella “predisposizione di un’area recintata di parcheggio meccanizzato a pagamento” il che ingenera “in chi accetta l’offerta predisposta dal gestore l’affidamento che in questa sia compresa anche la custodia del veicolo; conseguentemente deve ritenersi che nell’oggetto del contratto di parcheggio sia compresa l’obbligazione di custodia”.

La deroga a questo obbligo ex art 1341 c.c., deve essere posta a conoscenza all’utente in modo chiaro ed univoco prima della conclusione del contratto – che la Corte individua nel momento in cui l’utente si presenta innanzi alla sbarra di accesso – e accettata mediante la sua specifica sottoscrizione, stante il carattere della sua vessatorietà e per certo non si risolve con l’apposizione di cartelli che, peraltro, sono collocati dopo l’avvenuta conclusione del contratto di parcheggio.

____________

[1] Corte di Cassazione ordinanza del 27 giugno 2023 n. 18277

FONTE:

PARCHEGGIO A PAGAMENTO CON SBARRA – Il gestore è sempre responsabile quale custode
FATTO ILLECITO – Prescrizione su danno postumo

FATTO ILLECITO – Prescrizione su danno postumo

Prescrizione del fatto illecito su danno postumo

IL CASO

Autore: Michele Borsoi

Premessa

Sono un installatore di impianti elettici e la mia attività è tra quelle disciplinate dal D.M. 37/2008.
Visto che detto decreto precisa diversi aspetti, ma non dice alcunché circa la mia responsabilità per eventuali danni che si dovessero manifestare dopo la conclusione e consegna dei lavori, mi domando se e per quanto tempo sarò tenuto a rispondere
di eventuali danni che l’impianto da me installato ha generato.

La situazione

Detto decreto ministeriale riguarda gli impianti installati all’interno di edifici e delle loro pertinenze. All’articolo 1 sono elencate le varie tipologie di impianti ammessi. Lo stesso decreto – e prima di esso la legge 46/90 – stabilisce dei regimi di responsabilità speciali rispetto a quelli del regime ordinario. L’installatore può trovarsi esposto a due diverse problematiche: a) vizi dell’opera realizzata(impianto) ex articolo 1667 codice civile b) danni cagionati dall’opera a persone e/o cose diverse dall’opera (impianto) ex articolo 2043 codice civile

Difetti dell’opera

Nel primo caso la sua responsabilità si prescrive una volta che siano trascorsi due anni dalla data di consegna dell’opera (impianto), ex articoli 1667 e 1668 codice civile. Se, però, in questi primi due anni dovesse emergere un vizio dell’impianto, l’appaltatore è tenuto a sue spese ad eliminare i vizi e le difformità emerse, oppure dovrà ridurre proporzionalmente il prezzo. Se dal vizio o difformità dovesse anche emergere una sua colpa, potrà essere chiamato al risarcimento del danno causato al committente.

Danni cagionati dall’opera

Nel caso in cui emerga una sua responsabilità per danni cagionati dall’opera, essa si prescrive trascorsi cinque anni dal giorno in cui il fatto illecito si è verificato, ex articolo 2947 codice civile. Serve però ora condurre un’attenta riflessione sul disposto dell’articolo 2947 del codice civile, in merito alla prescrizione del diritto del danneggiato al risarcimento del danno. La domanda a cui è doveroso rispondere è: il momento dei cinque anni decorre dal giorno della consegna dell’opera o dalla manifestazione del danno? Molto spesso, quando si commentano questi casi ci si limita a precisare il termine dei cinque anni senza rispondere al quesito suesposto, generando la percezione comune che la responsabilità dell’installatore si prescriva trascorsi cinque anni dalla data di consegna dell’impianto al committente. Chiariamo che detto termine di prescrizione delimita il tempo a disposizione del danneggiato all’ottenimento del proprio diritto, ma non va in alcun modo a delimitare il termine di decadenza della responsabilità per fatto illecito. Se un impianto installato provoca un danno, supponiamo bruci l’abitazione del committente e venga accertata la responsabilità dell’installatore, il termine di prescrizione decorre dal giorno in cui il danno si è manifestato e non dal giorno in cui l’impianto è stato consegnato; da quando il danno si manifesta, il danneggiato dovrà agire per l’ottenimento del suo diritto entro cinque anni, interrompendone eventualmente i termini attraverso le modalità consentite.

Giurisprudenza in merito

In questo senso la giurisprudenza afferma che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno determinato da fatto illecito “decorre dal momento in cui il danno si manifesta all’esterno divenendo oggettivamente percepibile e conoscibile” (Cass. n. 12666/2003; Cass. n. 5913/2000). Si tratta di un principio conformemente accettato in giurisprudenza, quello secondo il quale, laddove “la percezione del danno non sia manifesta ed evidente, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, sorge non dal momento in cui il fatto del terzo determina il danno, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile” (Cass. n. 10072/2010).

Conclusioni

Possiamo quindi affermare che, in termini di danno postumo derivante da fatto illecito, il danneggiato deve far valere il suo diritto entro cinque anni da quando il danno si è manifestato, mentre per la responsabilità dell’installatore non viene previsto un termine di decadenza. Atteso che l’onere di provare la colpa dell’installatore grava su colui che avanza la pretesa di risarcimento, secondo il vostro giudizio quanto deve valere il termine di copertura postuma dato da un contratto di assicurazione per tenere indenne l’installatore da eventuali pretese dei danneggiati?

FONTE:

ANAAO ASSOMED – Quanto costa curarsi privatamente?

Spesa sanitaria in rapporto al Pil fra i più bassi d’Europa, asimmetria informativa, mancanza di riforme organiche e livelli di prestazioni eterogenee fra le regioni italiane, problemi di accesso alle cure, lunghe liste d’attesa, incremento delle prestazioni sanitarie effettuate in regime di intramoenia, livello di reddito fra i più bassi d’Europa per i medici che operano nel Servizio Sanitario Nazionale: queste solo alcune delle criticità che ogni giorno sentiamo con riferimento al nostro Servizio Sanitario Nazionale.

Ma siamo veramente disposti a rinunciare alla sanità pubblica? Se non ci fosse più il Sistema Sanitario Nazionale, saremmo in grado di coprire le spese mediche? Anaao Assomed – sindacato di medici e dirigenti sanitari italiani – lo scorso mese di giugno ha condotto una ricerca in tal senso, rilevando i seguenti costi medi delle prestazioni sanitarie (le tariffe sotto riportate sono tuttavia variabili a seconda dell’età, sesso, e singoli esami previsti) qualora queste ultime vegano effettuate privatamente:

Ricovero: da 422 a 1.278 euro al giorno, a seconda della complessità dello stesso, cui occorrerà aggiungere:

  • € 1.200/ora per la sala operatoria
  • € 600/giorno per la degenza in un reparto chirurgico
  • € 400/giorno per la degenza in un reparto di medicina
  • € 165/giorno per ricovero ordinario post acuzie

 

Un intervento di colecistectomia costerebbe circa da 3.300 euro (laparoscopica semplice) a 4.000 euro (laparoscopica complessa), cui dovrà aggiungersi l’onorario del chirurgo stimato fra i 3.000 e i 10.000 euro.

Ingenti anche le spese per gli esami di prevenzione, per un check up cardiologico si stima infatti un costo medio di:

  • 775 euro (con mammografia) per una donna di età superiore a 40 anni;
  • 694 euro (con mammografia) per una donna di età inferiore a 40 anni;
  • 395 euro per un uomo di età superiore a 40 anni;
  • 345 euro per un uomo di età inferiore a 40 anni.

 

Risulta evidente come il sostenimento di tali costi aggraverebbe – e non di poco – il bilancio di molte famiglie italiane, con tutte le conseguenze economiche e sociali del caso. Risulta quindi più che mai fondamentale auspicare a una revisione del nostro Sistema Sanitario Nazionale al fine di eliminare le attuali inefficienze e garantire a tutti il diritto alla salute, indipendentemente dal livello di reddito dei singoli individui.

FONTE:

ANAAO ASSOMED – Quanto costa curarsi privatamente?
COMUNE – Risarcisce la caduta

COMUNE – Risarcisce la caduta

PER LA CASSAZIONE LA CONDOTTA COLPOSA DELLA VITTIMA NON INTERROMPE IL NESSO CAUSALE – di Dario Ferrara

Spetta al comune risarcire il centauro caduto sulla buca nell’asfalto.
A meno che, beninteso, non riesca a provare il caso fortuito, che tuttavia è rappresentato da un fatto del danneggiato o di un terzo che non si può prevedere né prevenire: la condotta colposa della vittima, dunque, non interrompe il nesso causale fra la cosa in custodia e il danno; nesso il quale è insito nel fatto stesso che la caduta sia cagionata dall’interazione fra la condizione pericolosa della strada e l’agire umano. È quanto emerge dalle motivazioni della sentenza n.4051/2023, pubblicate il 9 febbraio scorso dalla terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione. Insidia irrilevante. È accolto dopo una doppia sconfitta in sede di merito il ricorso proposto dal centauro: sbaglia la Corte d’appello quando esclude il risarcimento sul rilievo che lo scooter era inadeguato a fronteggiare le insidie della strada e quindi il conducente avrebbe dovuto adottare un percorso alternativo. In realtà nella responsabilità ai sensi dell’articolo 2051 del codice civile (“danno cagionato da cose in custodia”) non conta se la cosa in custodia abbia o no natura insidiosa e l’insidia sia o meno percepibile oppure evitabile dal danneggiato. La responsabilità del custode è oggettiva: la vittima del sinistro può limitarsi a provare l’esistenza e l’entità del danno e la riconducibilità alla cosa, mentre la prova liberatoria a carico del comune consiste nel dimostrare l’intervento di un elemento esterno che elide il nesso causale. E che può essere un fatto naturale, di un terzo o della stessa vittima. Ma la condotta del danneggiato integra il caso fortuito soltanto quando è tale da sovrapporsi al modo di essere della cosa, degradandola a mera occasione del sinistro. Risulta insomma escluso che la buca nell’asfalto non possa essere prevista né prevenuta: anzi può essere rimossa o almeno segnalata.

Eccezione necessaria

Il custode deve ritenersi responsabile anche se la condotta della vittima è negligente, distratta, frutto di imperizia o imprudenza. La condotta colposa del danneggiato, tuttavia, non risulta indifferente nella liquidazione ad opera del giudice: la condotta del danneggiato può comunque ridurre il risarcimento o anche escluderlo per tutti i danni che l’attore avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza: nel secondo caso, però, serve un’eccezione ad hoc della controparte.

La parola ora passa al giudice del rinvio.

FONTE:

FABBRICATI, MACCHINARI, MERCI – Valore a Nuovo e Valore allo Stato d’Uso

Autore: Clemente Fargion – ASSINEWS 347 – dicembre 2022 

Una scelta tra due soluzioni che genera indeterminazione sul risultato

Premessa
Com’è noto, la distinzione tra valore a nuovo a valore allo stato d’uso, da sempre riguarda esclusivamente le partite fabbricati e macchinari. Nessuno si è mai immaginato di applicare questi concetti alla partita merci. Ciò nonostante, l’esperienza che nasce dalla gestione di numerosi sinistri condotta da chi scrive, in via diretta o indiretta, porta a fare alcune riflessioni sotto una luce diversa, che conducono a conclusioni inedite rispetto alla letteratura del settore.

Il valore allo stato d’uso, snobbato da anni nella pratica assicurativa, è un concetto strettamente legato all’uso e alla conseguente usura ed è immediatamente intuibile che questi aspetti non possono riguardare le merci, le quali non hanno la possibilità di essere vecchie, e nemmeno usate, in quanto vengono realizzate nello stabilimento per essere immesse sul mercato. Pertanto sono nuove per definizione, senza alternative. Ma per poter analizzare il fenomeno, occorre sganciarsi dal vincolo della dicotomia che porta un bene ad essere considerato nuovo usato.

Il termine valore allo stato d’uso, nato semplicemente come antitetico del valore a nuovo, in realtà è improprio e in qualche modo fuorviante, e per questa ragione, portatore di equivoci e ostacoli alla definizione del sinistro. Vediamo di capire insieme perché.

1. Il significato del valore patrimoniale di un bene in ambito imprenditoriale
Prima di affrontare questa interessante tematica, vediamo di fare il punto sulla classificazione dei beni nell’impresa industriale, classificazione che siamo fin troppo abituati a fare sotto il condizionamento dell’ottica assicurativa, mentre sarebbe più sano che quest’ultima si adegui alla logica d’impresa, piuttosto che il contrario, se non altro per coerenza con il concetto di polizza tailor-made, che dichiara di adattarsi alle esigenze del rischio che va a coprire. Nell’ottica condizionata dall’esperienza assicurativa si riconoscono solo tre tipologie di beni assicurabili:
1) i fabbricati
2) i macchinari, le attrezzature e gli arredi
3) le merci Dopo di che, consci che queste tre categorie sono largamente insufficienti a comprendere tutto ciò che esiste in una realtà industriale, ci si appella ad un principio noto con il curioso nome di universalità, in base al quale tutto ciò su cui non vi è la certezza di appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro, lo si fa appartenere convenzionalmente al gruppo 2).

Si tratta di una classificazione chiaramente rattoppata, i cui nodi vengono al pettine del sinistro, talvolta sottoforma di problemi senza una soluzione tecnica, anche se, poi, trovano la loro naturale definizione in una soluzione negoziale, nella quale scompaiono per annegamento ignoranza, mancanza di dati, errori (che siano accidentali o dolosi), incomprensioni e divergenze di vedute e, in generale, tutto ciò che rischiava di sabotare una corretta liquidazione del danno.

Per riacquistare quella chiarezza di vedute che è offuscata dalle lenti deformanti della dimensione assicurativa, dobbiamo svincolarci da questa e ricondurre lo studio alla disciplina contabile e di gestione finanziaria dell’impresa.

In una impresa esistono ben più che tre tipologie di beni patrimoniali, come emerge dall’elenco che segue, peraltro limitato alle categorie principali:
1) i beni immobiliari, che sono i terreni e i fabbricati
2) i beni mobili strumentali, che sono i macchinari e le attrezzature
3) i beni mobili non strumentali, che sono gli arredi di stabilimento e di ufficio
4) i beni ausiliari che sono prevalentemente i materiali di consumo, ma anche tutto ciò che va sotto la definizione, un po’ vintage, di cancelleria, stampati e postali
5) il capitale circolante, che è costituito dalla liquidità e dalle merci
6) i beni immateriali quali i crediti e le partecipazioni Escludendo i beni immateriali che sfuggono alla capacità di valutazione dei periti e non solo, cerchiamo di ritrovare le categorie che ci sono famigliari in questo elenco forse troppo severo.

Riconosciamo la partita fabbricati nel punto 1) di questo elenco, dopo aver escluso i terreni, considerati a suffragio plebiscitario beni non assicurabili, in quanto il terreno non brucia. Non si può nascondere l’irritazione che suscita una motivazione così gretta e grossolana, ma rimanderei la discussione ad altra occasione. Riconosciamo inoltre la partita macchinari nei punti 2), 3) e parte del punto 4), che ho volutamente esposto in modo distinto per sottolineare l’evidente inadeguatezza di un metodo di calcolo unificato per la stima della pre-esistenza e del danno relativi a cose così profondamente diverse tra loro.

A beneficio di chi non lo rammenti, faccio presente che la categoria comprende:
• i macchinari delle linee produttive,
• gli impianti generali (elettrico, termico, idraulico), le scaffalature,
• i muletti a motore elettrico e quelli manuali, chiamati anche transpallet,
• gli utensili e gli attrezzi dell’officina di manutenzione, compresi naturalmente viti, bulloni ed altre minuterie, ma anche
• le scrivanie e le poltroncine degli uffici, con i relativi cestini di plastica della spazzatura,
• le macchine elettroniche da ufficio,
• la cancelleria, quali penne biro, fogli da stampante, gomme, matite, calendari affissi al muro o impilati nei cassetti, flaconi di colla, nastri adesivi e persino
• gli indumenti da lavoro del personale dipendente. Inoltre rimane compreso d’ufficio tutto ciò che non trova collocazione precisa in nessuna delle tre partite.

Riconosciamo infine la partita merci nel punto 5), in cui l’associazione al danaro susciterà le contestazioni di chi abbia costruito la propria cultura sui testi di polizza, ma che, in una logica contabile-bilancistica, non fa una piega.
Osserviamo che i materiali di consumo, nel la logica assicurativa sono inclusi nella partita merci, mentre nella gestione d’impresa sono classificati tra i beni ausiliari, ma non potranno mai essere considerati merci, in quanto non ne costituiscono un ingrediente di lavorazione.

Per inciso, il termine merce ha la stessa radice di mercato, quindi è ciò che l’impresa vende, anche se ciò che vende sono unità immobiliari.
Tralasciando questo caso estremo, che può turbare i sonni di coloro che si sono da tempo adagiati sulle consuetudini di mercato, possiamo comunque affermare che la somma che andiamo ad assicurare per la partita merci deve comprendere tutto ciò che entra a far parte del prodotto finito confezionato, pronto alla spedizione, quindi compresi imballaggi, materiali di riempimento anti-urto o con funzioni di coibentazione per proteggere il contenuto da umidità e sbalzi di temperatura, etichette, regge, punti metallici di cucitura, foglietti illustrativi e manuali d’uso inseriti nella confezione.

Questo elenco non può prevedere i materiali di consumo, che invece la consuetudine assicurativa comprende nella partita merci, forse perché l’estensore di questa normativa ha ritenuto che la natura liquida, in senso lato, di questi materiali, consentisse di assimilarli più alle merci che non alla solidità dei macchinari o dei fabbricati, dimostrando scarsa razionalità e senso organizzativo, dimenticando che per un’impresa che fabbrica e vende macchinari, le merci sono dei macchinari, ma non per questo vengono assicurate nella partita macchinari. Nella rudimentale griglia assicurativa che suddivide le cose esistenti in fabbricati, merci e macchinari, con l’avvertenza che questi ultimi sono deputati ad accogliere nella categoria tutto ciò non ha cittadinanza sicura, ci si dovrebbe attendere di vedervi collocare anche i materiali di consumo. Invece, no! Possono essere fatte una o più congetture sulle ragioni di questa scelta, che tradisce una regola stabilita dalla stessa fonte che l’ha generata, ma nessuna di quelle che possono venire in mente risulta giustificabile. Prendiamone atto, senza discutere.

Peraltro l’incoerenza è un elemento non così raro nella logica assicurativa.

2. Riscopriamo il valore che la cosa aveva al momento del sinistro
Come abbiamo accennato in premessa, fabbricati e macchinari si possono assicurare al valore a nuovo, o al valore allo stato d’uso, mentre le merci non godono di questa scelta, in quanto non possono essere né vecchie, né usate.

Purtroppo, la globalizzazione del metodo di assicurazione al valore a nuovo ha stravolto il concetto appena espresso, finendo per escludere, paradossalmente, l’unico bene che è nuovo per definizione.
Come vedremo meglio più avanti, pur riconoscendo che le merci non possono che essere nuove, il valore che le norme contrattuali attribuiscono alla partita merci non segue la filosofia assicurativa che sta dietro l’assicurazione al valore a nuovo. Ma andiamo con ordine.

Abbiamo accennato in premessa anche che il termine valore allo stato d’uso ha un senso solo per contrapposizione al valore a nuovo, ma che in realtà è mal espresso. Cos’è in definitiva il valore allo stato d’uso? È il valore che muta nel tempo relativamente a quei beni il cui utilizzo si estende a periodi pluriennali e che si deprezzano per usura o per invecchiamento.

Perché ci interessa conoscere questa curva di deprezzamento? Perché quando capita un sinistro, per sapere cosa valeva quella cosa che si è danneggiata, prima di danneggiarsi, dobbiamo sapere in che punto della curva si trovava al momento del sinistro. In breve, ci serve a determinare il valore al momento del sinistro.

Questo è il punto di riferimento, il valore assicurativo nel vero senso della parola. Se ne comprendiamo il significato profondo, scopriamo che esso non esclude le merci.

Quando il codice civile enuncia il principio della sotto-assicurazione, o insufficienza della somma assicurata (art. 1907) parla di valore che la cosa aveva al tempo del sinistro.

Non è un caso, visto che nel codice civile ritroviamo tutto il rigore sintattico e terminologico che i testi assicurativi hanno perso per strada. Se adottiamo come riferimento il valore al momento del sinistro, noi ci agganciamo al valore lungo la sua curva di variazione nel tempo, fissato al momento in cui l’accadimento dannoso ha provocato il danno.

Questa curva
• quando segue il variare del valore attuale del bene durevole è un grafico in continua discesa, a causa dei fattori di invecchiamento e usura
• quando invece segue il variare del valore delle merci, è un grafico nel quale si susseguono fasi di crescita, di diminuzione o a valore costante, in quanto è legato a mutevoli e, talvolta contrastati, fattori di mercato Nel primo caso, quello dei beni durevoli, il valore al momento del sinistro può essere chiamato valore allo stato d’uso, mentre nel caso delle merci il valore al momento del sinistro mantiene questa definizione generale senza assumere un nome proprio.

Se si facesse riferimento generalizzato al valore al momento del sinistro, cestinando una volta per tutte quel valore allo stato d’uso, peraltro assai poco amato dagli operatori di mercato che vedono ormai nel valore a nuovo un diritto sindacale inalienabile, considerando chi non lo faccia alla stregua di chi non conoscesse lo smart-phone, o di chi circoli con un’auto sprovvista del servo-freno con ABS, forse si eviterebbero tanti equivoci in fase di liquidazione dei sinistri.

Come abbiamo accennato, sebbene il valore a nuovo sia un criterio che ha invaso la normativa contrattuale, il valore al momento del sinistro è il vero valore che la cosa ha per l’assicurato, nel momento in cui riceve gli effetti pregiudizievoli dell’evento dannoso ed è, al tempo stesso, il vero valore da assicurare.

Non a caso gli elaborati di stima redatti dalle società specializzate a valutare i valori dei beni durevoli da assicurare, evidentemente non contagiate dall’improprietà di linguaggio che domina lo scenario assicurativo, distinguono tra
• valore a nuovo e
• valore di assicurazione

Questa distinzione mette in evidenza che il valore a nuovo è alternativo al valore di assicurazione, come se non ne fosse nemmeno un caso particolare, mentre l’uso in ambito assicurativo di questa forma ha sostituito il legittimo valore di assicurazione, dopo un prolungato esordio nel quale il valore a nuovo era un oggetto di ostentazione da parte di chi lo proponeva.

3. Analisi della curva di degrado dei beni durevoli
Abbiamo visto che la curva che segue il variare del valore attuale del bene durevole è un grafico in continua discesa, a causa dei fattori di invecchiamento e usura.

Mentre per un macchinario facente parte di una linea di produzione industriale, il concetto di degrado dovuto all’uso è di immediata comprensione, la cosa si fa più fumosa e meno comprensibile quando parliamo di beni immobili.

In realtà un manufatto edilizio è soggetto anch’esso all’invecchiamento, anche se in tempi molto più lunghi. Il degrado dei beni durevoli ha una sua base tecnica, che trova riscontro nel bilancio societario, attraverso il meccanismo degli ammortamenti.
Tuttavia il tasso di ammortamento annuo di un bene per fini contabili e bilancistici si adatta ad esigenze dell’impresa di natura fiscale e di regolazione del risultato di esercizio e finisce quindi per avere solo una attinenza qualitativa col degrado fisico degli stessi beni, ma su un piano quantitativo si possono riscontrare degli scostamenti anche sostanziali.

Per comprendere il degrado di un macchinario di produzione, dobbiamo partire con la precisazione che il suo valore patrimoniale è dato dalla somma di
• una quota fissa minoritaria (valore materiale) e
• una quota maggioritaria (valore funzionale) che si consuma con l’uso e col passare del tempo.

Per i fabbricati la quota fissa, pur mantenendosi minoritaria, è più alta e i tempi di consumo della quota di valore funzionale sono molto più lunghi: ne deriva un tasso annuo di degrado molto più basso di quello dei macchinari.
Naturalmente, di fronte alla diversificazione selvaggia della natura dei beni cacciati sotto la partita macchinari dall’invadenza indiscriminata del principio di universalità, questi ragionamenti vanno, come si dice in gergo popolare, in cavalleria.

Ma di fronte alle insormontabili difficoltà che ne derivano, è invalso l’uso di ragionare sul valore della preesistenza della partita macchinari come se si trattasse di macchinari nel senso letterale del termine, dimenticandosi che la somma assicurata comprende cose di ogni sorta e ciò anche in merito alla stima di una eventuale sottoassicurazione.

Per non appesantire più del dovuto la trattazione che segue, decidiamo di piegarci alla logica incongruente che abbiamo sopra rappresentato.

4. La stima del danno secondo le due filosofie assicurative
Si osserva che quando ci troviamo a ragionare in merito a un bene di natura durevole (fabbricato o macchinario) stimiamo il costo della sua eventuale riparazione e lo confrontiamo con il suo valore al momento del sinistro, al netto del valore dei suoi residui.

Perché dunque, confrontiamo il costo dell’eventuale riparazione di un bene con il suo valore al momento del sinistro, considerato al netto del valore dei suoi residui? Perché il valore al momento del sinistro è considerato il massimo danno che l’assicurato possa subire, salvo che non riesca a contenerlo con delle spese di riparazione di importo minore.

In definitiva, le spese per la riparazione costituiscono la variabile del danno, mentre il valore del bene al momento del sinistro, il suo limite insuperabile. Vediamo di analizzare in profondità il significato di ciò che abbiamo fin qui detto.

È curioso come, pur consapevoli che il ragionamento che segue fa finta di credere che i macchinari, nella loro accezione assicurativa, siano delle macchine propriamente dette, lo facciamo lo stesso per pagare pegno all’atto col quale, verso la fine del paragrafo precedente ci siamo piegati alla incongruenza assicurativa.

Ricordando che un macchinario ha un valore composito, costituito dalla somma di
• una componente materiale e di
• una componente funzionale possiamo dire che il sinistro che colpisca il macchinario cagionerebbe un abbattimento istantaneo della sua quota di valore funzionale, lasciando intatto la quota fissa.

Quest’ultima rap presenta il residuo che andiamo a sottrarre dal valore che la cosa aveva al momento del sinistro.

Facciamo attenzione al ragionamento che diventa il cardine di questa trattazione: se noi deduciamo dal valore del bene usato come si trovava nell’istante che ha preceduto il sinistro, il valore del rottame a cui il sinistro stesso lo ha ridotto, cosa otteniamo?

La diminuzione di valore del bene a causa del suo danneggiamento
Verosimilmente questa diminuzione coincide con la quota di componente funzionale residua che il bene perde istantaneamente con il suo danneggiamento.
Questo parametro è la stella polare dei calcoli che vengono fatti per la stima del danno in base al valore al momento del sinistro: considerare il danno economico pari alla diminuzione del valore della cosa danneggiata, salvo che non costi meno ripararla.

Osserviamo che si tratta di un ragionamento squisitamente patrimoniale, che si sofferma sul carattere patrimoniale del danno subito e non sulla funzionalità del bene. Infatti se rinunciamo a riparare il bene perché costa più della perdita di valore che esso ha subito a causa del danno, significa che ciò che importa per noi è il valore patrimoniale, mentre il costo della riparazione è tenuto in considerazione solo se permette all’assicuratore di risparmiare sull’esborso dell’indennizzo calcolato su base patrimoniale.

Ma un bene strumentale in ambito industriale non ha valore solo per la sua sostanza patrimoniale, ma perché la sua sostanza patrimoniale o, più precisamente, la sua componente funzionale è un credito tecnico-funzionale che ci permette di fruire della produttività cui quel bene necessariamente contribuisce. In quest’ottica, ci serve comunque ripararlo, a prescindere dal fatto che ci costi di più o di meno della perdita di valore patrimoniale subìta a causa del sinistro.

In questa logica utilitaristica, quand’è che la riparazione non conviene più? Quando il suo costo supera il costo di acquisto a nuovo.
Quindi le alternative non sono più la riparazione o la conservazione del rottame con risarcimento della perdita di valore, ma due possibilità, tra le quali l’assicuratore fa una scelta conservativa, ma entrambe finalizzate a riguadagnare la capacità operativa che il bene danneggiato garantiva prima di essere compromesso dal sinistro.

Abbiamo così scoperto una nuova dicotomia, che supera e cestina quella che per anni ha visto contrapporsi il valore allo stato d’uso e il valore a nuovo:
1) la filosofia assicurativa su base patrimoniale
2) la filosofia assicurativa su base funzionale

La filosofia assicurativa su base patrimoniale è quella che sta dietro all’assicurazione tradizionale che è basata sul valore al momento del sinistro (che per i beni durevoli coincide con il valore allo stato d’uso), mentre
La filosofia assicurativa su base funzionale è quella che sta dietro all’assicurazione basata sul valore a nuovo. Se all’esordio della trattazione abbiamo osservato che non ha senso parlare di valore a nuovo o allo stato d’uso con riferimento alle merci, ora possiamo senza dubbio domandarci a quale delle due suddette filosofie assicurative si adegua il metodo comunemente seguito dai periti nella stima dei danni alle merci e indagare sulla risposta.

5. La stima del danno alle mercia qual e filosofia assicurativa si allinea?
Le merci non sono soggette a deprezzamento per vetustà, ma nonostante questo per esse può essere stimato un valore al momento del sinistro, dato dal costo delle materie prime, addizionato del costo della lavorazione effettuata perché il processo di trasformazione porti i prodotti nello stato in cui si trovavano nell’istante precedente l’accadimento dannoso.

Aver citato il valore delle merci al momento del sinistro non ci autorizza ad affermare che le merci si assicurano col metodo dell’assicurazione allo stato d’uso, ma se procediamo nell’analisi senza lasciarci condizionare, magari facciamo delle scoperte interessanti.

Contabilmente le merci sono considerate capitale circolante, al pari del danaro contante. Nella terminologia industriale le merci si suddividono in
• materie prime
• prodotti semilavorati o in corso di lavorazione
• prodotti finiti Nella terminologia merceologica, le materie prime sono quelle destinate ad un uso diretto o ad un processo di trasformazione, ma che in entrambi i casi non hanno subito nessuna precedente manipolazione.

In genere sono prodotti della terra, minerali, l’acqua e, in generale, gli elementi chimici o i composti chimici che si trovano in natura.

Il prodotto semilavorato e quello in corso di lavorazione hanno in comune la caratteristica di aver già subito una parte di lavorazione.
La differenza tra le due tipologie sta nel fatto che si definisce semi-lavorato un prodotto che ha già subito una prima lavorazione, o una prima serie di lavorazioni prima di entrare nel ciclo produttivo della nostra impresa, e prodotto in corso di lavorazione un prodotto che ha subito una parte delle lavorazioni all’interno del nostro processo produttivo.

Un prodotto finito è un prodotto che si trova nello stato pronto all’uso del consumatore. Se si tratta di macchine di uso industriale, il consumatore è in realtà una impresa industriale, che di quel prodotto farà uso come di un bene strumentale.

Nella logica assicurativa la terminologia segue un punto di vista soggettivo dell’assicurato e fotografa lo stato delle cose al momento del sinistro. Perciò:

Materie prime sono i materiali e i componenti che al momento del sinistro si trovano allo stato in cui sono stati acquistati, prima di essere sottoposti al processo produttivo. È molto raro che siano materie prime nel senso merceologico del termine.

Semilavorati sono le merci per le quali il sinistro ha interrotto il processo di trasformazione prima che fosse completato.

Prodotti finiti sono le merci che, al momento del sinistro, si trovavano ad aver subìto l’intero processo di lavorazione.

La valutazione delle merci non può che essere fatta su base patrimoniale.
La valutazione su base funzionale ha un senso solo se ci riferiamo a beni che debbano servire in funzione di una finalità.

Le merci sono la finalità dell’attività produttiva. Abbiamo detto che:
• la filosofia assicurativa a base funzionale caratterizza l’assicurazione al valore a nuovo, mentre
• quella a base patrimoniale caratterizza l’assicurazione basata sul valore allo stato d’uso significa dunque che, senza dichiararlo, le merci vengono assicurate in base al loro valore allo stato d’uso? No, perché le merci non possono essere nella condizione di usato, salvo che non siano in uso al consumatore.

Però è vero che le merci sono assicurate sulla base della filosofia assicurativa patrimoniale, che è la stessa adottata per l’assicurazione dei beni durevoli allo stato d’uso.

6. La riparazione delle mercicontrattualmente non prevista ma possibile
Nella maggior parte dei settori merceologici, vi sono merci suscettibili di riparazione, ammesso che sia possibile con la riparazione eliminare tutti i problemi causati dal sinistro.

Per esse il danno è pari al costo della riparazione, con il massimo del valore patrimoniale come sopra definito.
Non esiste nessun testo di polizza property che tratti della riparabilità delle merci, ma questa è una realtà imprescindibile del tessuto industriale.

Nel caso di una merce non riparabile, il danno dovrebbe essere parificato alla perdita di valore patrimoniale a seguito del danneggiamento, ma in realtà raramente esiste un criterio per valutare il valore di una merce danneggiata, che istintivamente verrebbe considerato pari a zero, salvo che non si tratti di un prodotto costituito da componenti assemblate, fra le quali se ne possano individuare una o più che una volta smontate fossero riutilizzabili. Altrimenti il danno corrisponde al costo del rifacimento da zero delle merci danneggiate in modo irreparabile.

Ma attenzione! Il costo del rifacimento deve necessariamente essere quello calcolato al momento del sinistro, rispetto al quale il momento del ripristino potrebbe essere differito di un periodo di qualche mese, nel corso del quale i costi, specie quelli delle materie prime, potrebbero essere radicalmente cambiati.

Ed il cambiamento dei costi di mercato è tanto maggiore quanto più tempo trascorre dalla data del sinistro al momento in cui si devono tirare le somme per definire con i Periti, la quantificazione dell’indennizzo dovuto a termini di polizza.
Questo accenno dà una vaga idea dell’odissea in cui si possa trovare un assicurato, che specie in casi di sinistri complessi che richiedono tempi lunghi per la loro definizione, e specie se il sinistro abbia colpito tipologie di merci in gran numero e in grande varietà, possono portare all’obbligo di risalire per una lista numerosa ed eterogenea di merci, ai costi di acquisto delle materie prime al momento del sinistro, che potrebbero risultare anche irreperibili.

Questo ordine di difficoltà, con le quali chi scrive si è trovato ad aver a che fare per esperienza diretta, potrebbe suggerire di istituire una nuova normativa per il calcolo della pre-esistenza e del danno alle merci, che non abbia ad incontrare tutti questi ostacoli.
Se si sostituisse il riferimento ai costi di mercato con quello ai valori contabili, tutti i dati necessari sarebbero reperibili nella contabilità interna dell’impresa assicurata, considerando inoltre che il valore contabile delle merci è il valore effettivo che le merci hanno per l’assicurato.

È una piccola rivoluzione che auspico nel mondo assicurativo, che si ispira assai poco ad un ideale di contestazione, ma molto ad un pragmatismo reso necessario dalle difficoltà oggettive che periti ed assicurati incontrano nel valutare il danno e l’indennizzo dovuto a termini di polizza.

FONTE:

FABBRICATI, MACCHINARI, MERCI – Valore a Nuovo e Valore allo Stato d’Uso
RC GARANZIE – Per autoveicoli immatricolati come autocarri

RC GARANZIE – Per autoveicoli immatricolati come autocarri

Se il veicolo è immatricolato come autocarro la normativa sulla circolazione stradale prevede che possono essere trasportati solo terzi, come il dipendente o il fornitore di beni e servizi. Il veicolo non potrebbe essere usato da “diporto”; in caso di incidente, quindi, con ferimento dei trasportati sul sedile posteriore, di giorno festivo, la compagnia assicuratrice potrebbe eccepire eccezioni per trasporto irregolare rifiutando di risarcire il danno patito?

L’ESPERTORISPONDE

L’articolo 54, comma 1, lettera “d)” del codice della strada precisa che gli autocarri sono “veicoli destinati al trasporto di cose e delle persone addette all’uso o al trasporto delle cose stesse” per cui è evidente che essi non possano essere usati per scopi diversi. La Legge n. 388/2000, il decreto legge n. 223/2007 e la legge finanziaria n. 244/2007 hanno reiteratamente ribadito che un veicolo immatricolato come autocarro debba essere espressamente adibito per il trasporto delle cose e delle persone addette alle operazioni connesse con la circolazione o con il carico e lo scarico del mezzo; pertanto detti mezzi possono essere utilizzati per il trasporto delle merci, degli strumenti di lavoro e del personale di cui si è detto. Il Ministero dell’ Interno, con circolare prot. n. M/2413-38 del 28 gennaio 1999 e circolare d. 300/A/1/34115/108/68 del 6 agosto 2004 aveva già ribadito questo orientamento e successivamente con il decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006 (poi convertito nella legge n. 248 del 4 Agosto 2006) ha previsto una deroga agli articoli 54 e 83 del codice della strada relativamente al trasporto di persone in autocarri della categoria N1 (cioè di peso complessivo fino a 35 quintali) disponendo: “Al fine di contrastare gli abusi delle disposizioni fiscali disciplinanti il settore dei veicoli, con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate, sentito il Dipartimento per i trasporti terrestri del Ministero dei trasporti, sono individuati i veicoli che, a prescindere dalla categoria di omologazione, risultano da adattamenti che non ne impediscono l’utilizzo per il trasporto privato di persone“.

In ogni caso gli occupanti di detti veicoli non possono MAI essere bambini o invalidi e neppure persone legale al proprietario dell’autocarro da un puro e semplice rapporto di parentela o amicizia, potendo esservi trasportati – come già sopra indicato – solo collaboratori addetti alla circolazione (secondo autista) o alle operazioni di carico e scarico delle merci trasportate.

Ovviamente i veicoli immatricolati come autocarri sono soggetti ai limiti di circolazione previsti per questa tipologia di automezzi (divieto di circolazione in alcuni giorni e orari) e eventuali sinistri in tali periodi potrebbero determinare problematiche di tipo liquidativo.

Alla luce di quanto sopra e pur trattandosi di trasporto di persone in violazione a precise disposizioni legislative, l’assicuratore sarebbe comunque tenuto al pagamento del risarcimento spettante ai trasportati lesi e avrebbe però diritto di esercitare contro il contraente/assicurato e l’autista l’azione di rivalsa di cui al secondo comma dell’articolo 144 del codice delle assicurazioni, che così dispone: “2. Per l’intero massimale di polizza l’impresa di assicurazione non può opporre al danneggiato eccezioni derivanti dal contratto, né clausole che prevedano l’eventuale contributo dell’assicurato al risarcimento del danno. L’impresa di assicurazione ha tuttavia diritto di rivalsa verso l’assicurato nella misura in cui avrebbe avuto contrattualmente diritto di rifiutare o ridurre la propria prestazione“.

In definitiva, salvo diverse condizioni speciali di polizza, la compagnia assicuratrice nulla potrebbe eccepire al trasportato “contra legem” in merito al suo trasporto anomalo, ma avrebbe certamente diritto di poter poi agire in rivalsa per le somme così pagate nei confronti del conducente e del contraente/assicurato.

In verità alcune compagnie assicuratrici hanno preso atto di un uso quanto meno anomalo di certi autocarri (si pensi ai SUV o anche ad altri autoveicoli immatricolati come autocarro per fini fiscali) ed hanno previsto di concedere ai propri assicurati – mediante patto espresso e pagamento di sovrappremio – la rinuncia della compagnia alla rivalsa.

FONTE:

POLIZZA RESPONSABILITA’ CIVILE – Lavori presso terzi

Se l’attività della polizza oggetto della polizza RCT si svolge esclusivamente presso terzi (es imbianchino, cartongessista, elettricista ecc.) posso fare meno di aggiungere la garanzia lavoro presso terzi? In quale caso sarebbe opportuno richiamarla?
Per essere chiari faccio un esempio: se durante lo svolgimento dell’attività, l’assicurato imbianchino fa scoppiare un incendio presso l’abitazione di Caio; quale garanzia risponde? Risponde il massimale RCVT?

L’ESPERTO RISPONDE:

I contratti di assicurazione della responsabilità civile richiedono che vi sia una esaustiva descrizione dell’attività che disciplini i contorni del rischio trasferito all’assicuratore.

Riprendendo gli esempi indicati dalla lettrice è palese che trattandosi di imbianchino, cartongessista, elettricista la loro attività si svolga presso le sedi dei vari committenti.

Risulta in questi casi ininfluente aggiungere nella descrizione dell’attività la dicitura: “compreso lavori presso terzi”. Nelle condizioni di assicurazione emerge però l’esclusione della copertura assicurativa nei casi di danni cagionati alle cose che si trovano nell’ambito di esecuzione dei lavori, ai locali in cui si effettuano i lavori.

Nella stessa o in altra condizione emerge poi l’esclusione per danni causati dall’incendio di cose dell’assicurato o da lui detenute. Si tratta di due esclusioni che possono essere derogate richiamando le specifiche condizioni aggiuntive, particolari o facoltative previste nelle varie polizze, il più delle volte concesse previo pagamento di un premio suppletivo.

Il fatto quindi che la mia attività sia quello dell’imbianchino non deroga alle predette esclusioni.

Pertanto, se assicuro un’attività di questo genere mi devo comunque preoccupare di estendere la copertura ai lavori presso terzi. Per assicurare quindi anche i casi di responsabilità derivanti da danni cagionati mentre si eseguono i lavori presso terzi, è sempre necessario ricorrere alla specifica pattuizione che comprenda sia i danni da incendio che i danni alle cose trovantisi in ambito di esecuzione dei lavori.

Nel caso specifico dell’imbianchino che causa un incendio presso l’abitazione di Caio, possiamo supporre che egli stia incatramando una superficie e da qui si sviluppi un incendio che bruci parte delle cose del committente Caio.

In questo caso, se opportunamente richiamata e resa operante la condizione di lavori presso terzi, compreso il caso di incendio, l’impresa di assicurazione lo terrà manlevato per i danni causati per propria colpa. Il massimale a disposizione per questo risarcimento sarà però quello previsto nella condizione aggiuntiva o facoltativa richiamata in polizza e non certamente quello indicato nella scheda di polizza quale massimale per danni a terzi.

Generalmente detto massimale si inquadra come un limite di risarcimento che vale per intero anno assicurato e rappresenta un di cui del massimale indicato nella scheda di polizza.

Nella maggior parte dei casi detto limite di risarcimento si applica solo per i danni a cose, mentre per i danni a persone non esiste limite di risarcimento, se non nel limite del massimale indicato nella scheda di polizza, per il semplice fatto che i danni da incendio a persone non sono quasi mai oggetto di esclusione. La ragione di tutto questo lavoro di esclusioni ed estensioni è volta a limitare la portata della copertura entro limiti di massimale più contenuti. In diversi casi è prevista la contemporanea applicazione di franchigie o di scoperti

Concludendo, ancorché la descrizione dell’attività sia quella dell’elettricista, la polizza deve sempre comprendere la garanzia “lavori presso terzi” o altra condizione con titolo similare e comunque ricomprendere i danni da incendio di cose dell’assicurato o da questi detenute.

Sono infatti queste le condizioni che verranno chiamate e manlevare l’assicurato dalle proprie responsabilità. Deve sempre prevedere copertura per danni ai locali e cose trovantisi nell’ambito di esecuzione dei lavori. Deve sempre commisurare il rischio non al massimale indicato in polizza, ma al limite di risarcimento indicato alla rispettiva clausola. Verifichi se il predetto limite di risarcimento sia valevole per ogni sinistro o per l’intera annualità assicurata. Verifichi se il già menzionato limite di risarcimento si applica solo per danni a cose o anche per lesioni a persone.

FONTE:

 

POLIZZA RESPONSABILITA’ CIVILE – Lavori presso terzi
POLIZZE – Professionista non tenuto a verifiche di conformità

POLIZZE – Professionista non tenuto a verifiche di conformità

IL REGOLAMENTO SULL’ASSICURAZIONE DECENNALE POSTUMA E IL MODELLO STANDARD

Lo scorso 5 novembre 2022 è entrato in vigore il Decreto Ministeriale n. 154/2022, contenente il Regolamento che stabilisce contenuto e caratteristiche della polizza di assicurazione decennale postuma e il relativo modello standard.
Composto di tre articoli e di altrettanti allegati (il modello standard «Allegato A – Schema Tipo», la scheda tecnica «Allegato B» e l’attestazione di conformità della polizza «Allegato C»), il Decreto completa il nuovo sistema di tutela degli acquisti di disciplina immobili da costruire per i quali il titolo abilitativo edilizio sia stato richiesto o presentato successivamente al 16 marzo 2019 (dlgs 20 giugno 2005, n. 122 e 389, comma 3, dlgs, 12 gennaio 2019, n. 14).

Il gruppo di studio sulla tutela degli acquirenti di immobili da costruire del Consiglio Nazionale è intervenuto a segnalare i profili di maggiore interesse per l’attività notarile.

Decorrenza. L’obbligo di adeguamento allo schema tipo riguarda le sole polizze stipulate dopo il 5 novembre 2022, non anche le polizze stipulate anteriormente a detta data, che restano utilizzabili anche per gli atti di compravendita di un cantiere “in corso”, purché si tratti di polizze cd. “di attivazione” o “definitive”. Non pare invece sufficiente che entro il 5 novembre 2022 sia stata sottoscritta una polizza cd. CAR “Contractor’s All Risks”, che consentirà all’acquirente di ottenere, al termine dei lavori, la polizza postuma decennale.

Soggetti. Le definizioni di “Acquirente” e di “Costruttore”, letteralmente riprese dall’art. 1 del dlgs n. 122/2005, costituiscono una ulteriore conferma alla natura di “sistema chiuso” della disciplina. L’obbligo di consegna della postuma non ricorre in occasione di ogni contratto definitivo avente ad oggetto un immobile di nuova costruzione, ma unicamente quando l’immobile sia stato preliminarmente oggetto di contrattazione quale “immobile da costruire”. In altre parole, l’obbligo sorge soltanto in presenza della cd. “sequenza preliminare-definitivo”.

Oggetto. Le definizioni di “Immobile” e di “Preesistente” nonché il richiamo, quali fattispecie rilevanti, alle ristrutturazioni integrali ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), del testo Unico dell’Edilizia D.P.R. n. 380/2001, avvalorano la linea di indirizzo, peraltro condivisa dalla giurisprudenza, della applicazione della normativa sugli immobili da costruire anche a interventi edilizi sul patrimonio preesistente, purché si tratti di interventi complessi, incidenti sugli elementi tipologici, strutturali e formali, del fabbricato, tali da determinare una vera e propria “trasformazione” dell’edificio.

Contenuto. Lo “schema tipo” fissa un “contenuto standard” di protezione della parte acquirente (derogabile dalle parti soltanto in senso più favorevole per quest’ultimo) e una serie di contrappesi di ‘bilanciamento’ a limiti di indennizzo, massimali, franchigie e scoperti.

Controllo notarile. Dalla lettura del dato normativo si deve escludere che il Notaio debba svolgere un controllo di tipo sostanziale sulla postuma. Al notaio è precluso entrare nel merito dell’estensione delle coperture assicurative, esprimere un giudizio sulle fattispecie rientranti nella garanzia, sulla congruità di somme assicurate, massimali, scoperti e franchigie. L’unica verifica possibile è relativa al limite minimo di 500.000,00 euro previsto dallo Schema tipo per la responsabilità civile contro terzi. Ogni altra verifica coinvolge valutazioni di carattere strettamente tecnico (e di merito) cui sono tenute le parti.

In sede di rogito, dopo aver appurato l’avvenuta consegna all’acquirente del modello con Scheda tecnica, Attestato di conformità e Nota informativa, il notaio dovrà svolgere sulla postuma un controllo documentale, verificando che l’emittente sia una impresa assicuratrice, l’immobile sia correttamente identificato, sia rispettato il limite minimo di 500.000,00 euro per la responsabilità civile, la data di decorrenza della garanzia sia quella della fine dei lavori, la copertura sia decennale e la polizza sia efficace. Avrà cura di acquisire la Attestazione di conformità di cui all’allegato C del Decreto, da cui risulta anche l’avvenuto versamento del premio.

Non dovrà invece verificare la conformità delle condizioni generali di polizza al modello di cui allo schema Tipo, né la conformità della polizza al modello medesimo, in quanto di tale conformità farà fede l’attestazione di cui all’allegato C. In sede di stipulazione del contratto traslativo dell’immobile, pertanto, il compito del Notaio, circoscritto nei termini sopra indicati, deve ritenersi assolto.

Camilla Pelizzatti, notaio componente del Gruppo di Studio sulla tutela degli acquirenti di immobili da Costruire del Consiglio Nazionale del Notariato

Fonte:

NOTAI – Tenuti alla moral suasion

LO DICONO (AFFERMANDO LA RESPONSABILITÀ) I GIUDICI DELLA III SEZIONE CIVILE DELLA CASSAZIONE – di Adelaide Caravaglios

Sussiste responsabilità in capo al notaio che non dissuade il cliente dall’acquisto di un immobile che presenta anomalie: lo hanno sostenuto i giudici della III sezione civile della Cassazione nell’ordinanza 33439/2022 intervenendo sul ricorso di un uomo avverso la sentenza della corte di merito.

Nei fatti era accaduto che con atto di citazione il ricorrente aveva convenuto in giudizio dinanzi al tribunale sia il pubblico ufficiale, che aveva redatto l’atto, sia la parte acquirente, lamentando che l’immobile, oggetto di compravendita, era risultato difforme dall’autorizzazione amministrativa, avendo un sottotetto che non era «qualificato abitabile per altezza inferiore a quella minima».

In dettaglio, nei due motivi di censura l’uomo aveva lamentato il fatto che la corte territoriale non aveva fatto corretta applicazione dei principi esistenti in giurisprudenza sul punto avendo sostenuto che nel mandato conferito al notaio rogante non dovevano considerarsi comprese «tutte quelle attività di indagine e di accertamento propedeutico all’esatto adempimento “nell’interesse delle parti e soprattutto del mandante”». Per il giudice di appello in altre parole il notaio non era tenuto a svolgere tutti gli accertamenti e le attività propedeutiche all’esatta esecuzione del mandato e degli obblighi inerenti alla sua professione, essendone «esonerato».

Di diverso avviso è stato il collegio giudicante secondo il quale in sede di merito, «a ben guardare», era stato circoscritto «in modo formalistico e quindi erroneamente riduttivo» l’obbligo del notaio di verifica e di controllo: il notaio incaricato della redazione di un contratto di compravendita immobiliare, ha ribadito, «deve compiere una verifica di natura tecnica ed essenzialmente giuridica» non potendosi limitare ad accertare la volontà delle parti e sovraintendere alla composizione dell’atto, ma dovendo compiere l’attività necessaria ad assicurare la serietà e la certezza degli effetti giuridici nonché il risultato pratico perseguito dalle stesse parti.

Così argomentando ha quindi accolto il ricorso e rinviato la decisione, anche per le spese di giudizio, ad altra corte di appello in diversa composizione.

FONTE:

NOTAI – Tenuti alla moral suasion