Autore: Clemente Fargion – ASSINEWS 347 – dicembre 2022 

Una scelta tra due soluzioni che genera indeterminazione sul risultato

Premessa
Com’è noto, la distinzione tra valore a nuovo a valore allo stato d’uso, da sempre riguarda esclusivamente le partite fabbricati e macchinari. Nessuno si è mai immaginato di applicare questi concetti alla partita merci. Ciò nonostante, l’esperienza che nasce dalla gestione di numerosi sinistri condotta da chi scrive, in via diretta o indiretta, porta a fare alcune riflessioni sotto una luce diversa, che conducono a conclusioni inedite rispetto alla letteratura del settore.

Il valore allo stato d’uso, snobbato da anni nella pratica assicurativa, è un concetto strettamente legato all’uso e alla conseguente usura ed è immediatamente intuibile che questi aspetti non possono riguardare le merci, le quali non hanno la possibilità di essere vecchie, e nemmeno usate, in quanto vengono realizzate nello stabilimento per essere immesse sul mercato. Pertanto sono nuove per definizione, senza alternative. Ma per poter analizzare il fenomeno, occorre sganciarsi dal vincolo della dicotomia che porta un bene ad essere considerato nuovo usato.

Il termine valore allo stato d’uso, nato semplicemente come antitetico del valore a nuovo, in realtà è improprio e in qualche modo fuorviante, e per questa ragione, portatore di equivoci e ostacoli alla definizione del sinistro. Vediamo di capire insieme perché.

1. Il significato del valore patrimoniale di un bene in ambito imprenditoriale
Prima di affrontare questa interessante tematica, vediamo di fare il punto sulla classificazione dei beni nell’impresa industriale, classificazione che siamo fin troppo abituati a fare sotto il condizionamento dell’ottica assicurativa, mentre sarebbe più sano che quest’ultima si adegui alla logica d’impresa, piuttosto che il contrario, se non altro per coerenza con il concetto di polizza tailor-made, che dichiara di adattarsi alle esigenze del rischio che va a coprire. Nell’ottica condizionata dall’esperienza assicurativa si riconoscono solo tre tipologie di beni assicurabili:
1) i fabbricati
2) i macchinari, le attrezzature e gli arredi
3) le merci Dopo di che, consci che queste tre categorie sono largamente insufficienti a comprendere tutto ciò che esiste in una realtà industriale, ci si appella ad un principio noto con il curioso nome di universalità, in base al quale tutto ciò su cui non vi è la certezza di appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro, lo si fa appartenere convenzionalmente al gruppo 2).

Si tratta di una classificazione chiaramente rattoppata, i cui nodi vengono al pettine del sinistro, talvolta sottoforma di problemi senza una soluzione tecnica, anche se, poi, trovano la loro naturale definizione in una soluzione negoziale, nella quale scompaiono per annegamento ignoranza, mancanza di dati, errori (che siano accidentali o dolosi), incomprensioni e divergenze di vedute e, in generale, tutto ciò che rischiava di sabotare una corretta liquidazione del danno.

Per riacquistare quella chiarezza di vedute che è offuscata dalle lenti deformanti della dimensione assicurativa, dobbiamo svincolarci da questa e ricondurre lo studio alla disciplina contabile e di gestione finanziaria dell’impresa.

In una impresa esistono ben più che tre tipologie di beni patrimoniali, come emerge dall’elenco che segue, peraltro limitato alle categorie principali:
1) i beni immobiliari, che sono i terreni e i fabbricati
2) i beni mobili strumentali, che sono i macchinari e le attrezzature
3) i beni mobili non strumentali, che sono gli arredi di stabilimento e di ufficio
4) i beni ausiliari che sono prevalentemente i materiali di consumo, ma anche tutto ciò che va sotto la definizione, un po’ vintage, di cancelleria, stampati e postali
5) il capitale circolante, che è costituito dalla liquidità e dalle merci
6) i beni immateriali quali i crediti e le partecipazioni Escludendo i beni immateriali che sfuggono alla capacità di valutazione dei periti e non solo, cerchiamo di ritrovare le categorie che ci sono famigliari in questo elenco forse troppo severo.

Riconosciamo la partita fabbricati nel punto 1) di questo elenco, dopo aver escluso i terreni, considerati a suffragio plebiscitario beni non assicurabili, in quanto il terreno non brucia. Non si può nascondere l’irritazione che suscita una motivazione così gretta e grossolana, ma rimanderei la discussione ad altra occasione. Riconosciamo inoltre la partita macchinari nei punti 2), 3) e parte del punto 4), che ho volutamente esposto in modo distinto per sottolineare l’evidente inadeguatezza di un metodo di calcolo unificato per la stima della pre-esistenza e del danno relativi a cose così profondamente diverse tra loro.

A beneficio di chi non lo rammenti, faccio presente che la categoria comprende:
• i macchinari delle linee produttive,
• gli impianti generali (elettrico, termico, idraulico), le scaffalature,
• i muletti a motore elettrico e quelli manuali, chiamati anche transpallet,
• gli utensili e gli attrezzi dell’officina di manutenzione, compresi naturalmente viti, bulloni ed altre minuterie, ma anche
• le scrivanie e le poltroncine degli uffici, con i relativi cestini di plastica della spazzatura,
• le macchine elettroniche da ufficio,
• la cancelleria, quali penne biro, fogli da stampante, gomme, matite, calendari affissi al muro o impilati nei cassetti, flaconi di colla, nastri adesivi e persino
• gli indumenti da lavoro del personale dipendente. Inoltre rimane compreso d’ufficio tutto ciò che non trova collocazione precisa in nessuna delle tre partite.

Riconosciamo infine la partita merci nel punto 5), in cui l’associazione al danaro susciterà le contestazioni di chi abbia costruito la propria cultura sui testi di polizza, ma che, in una logica contabile-bilancistica, non fa una piega.
Osserviamo che i materiali di consumo, nel la logica assicurativa sono inclusi nella partita merci, mentre nella gestione d’impresa sono classificati tra i beni ausiliari, ma non potranno mai essere considerati merci, in quanto non ne costituiscono un ingrediente di lavorazione.

Per inciso, il termine merce ha la stessa radice di mercato, quindi è ciò che l’impresa vende, anche se ciò che vende sono unità immobiliari.
Tralasciando questo caso estremo, che può turbare i sonni di coloro che si sono da tempo adagiati sulle consuetudini di mercato, possiamo comunque affermare che la somma che andiamo ad assicurare per la partita merci deve comprendere tutto ciò che entra a far parte del prodotto finito confezionato, pronto alla spedizione, quindi compresi imballaggi, materiali di riempimento anti-urto o con funzioni di coibentazione per proteggere il contenuto da umidità e sbalzi di temperatura, etichette, regge, punti metallici di cucitura, foglietti illustrativi e manuali d’uso inseriti nella confezione.

Questo elenco non può prevedere i materiali di consumo, che invece la consuetudine assicurativa comprende nella partita merci, forse perché l’estensore di questa normativa ha ritenuto che la natura liquida, in senso lato, di questi materiali, consentisse di assimilarli più alle merci che non alla solidità dei macchinari o dei fabbricati, dimostrando scarsa razionalità e senso organizzativo, dimenticando che per un’impresa che fabbrica e vende macchinari, le merci sono dei macchinari, ma non per questo vengono assicurate nella partita macchinari. Nella rudimentale griglia assicurativa che suddivide le cose esistenti in fabbricati, merci e macchinari, con l’avvertenza che questi ultimi sono deputati ad accogliere nella categoria tutto ciò non ha cittadinanza sicura, ci si dovrebbe attendere di vedervi collocare anche i materiali di consumo. Invece, no! Possono essere fatte una o più congetture sulle ragioni di questa scelta, che tradisce una regola stabilita dalla stessa fonte che l’ha generata, ma nessuna di quelle che possono venire in mente risulta giustificabile. Prendiamone atto, senza discutere.

Peraltro l’incoerenza è un elemento non così raro nella logica assicurativa.

2. Riscopriamo il valore che la cosa aveva al momento del sinistro
Come abbiamo accennato in premessa, fabbricati e macchinari si possono assicurare al valore a nuovo, o al valore allo stato d’uso, mentre le merci non godono di questa scelta, in quanto non possono essere né vecchie, né usate.

Purtroppo, la globalizzazione del metodo di assicurazione al valore a nuovo ha stravolto il concetto appena espresso, finendo per escludere, paradossalmente, l’unico bene che è nuovo per definizione.
Come vedremo meglio più avanti, pur riconoscendo che le merci non possono che essere nuove, il valore che le norme contrattuali attribuiscono alla partita merci non segue la filosofia assicurativa che sta dietro l’assicurazione al valore a nuovo. Ma andiamo con ordine.

Abbiamo accennato in premessa anche che il termine valore allo stato d’uso ha un senso solo per contrapposizione al valore a nuovo, ma che in realtà è mal espresso. Cos’è in definitiva il valore allo stato d’uso? È il valore che muta nel tempo relativamente a quei beni il cui utilizzo si estende a periodi pluriennali e che si deprezzano per usura o per invecchiamento.

Perché ci interessa conoscere questa curva di deprezzamento? Perché quando capita un sinistro, per sapere cosa valeva quella cosa che si è danneggiata, prima di danneggiarsi, dobbiamo sapere in che punto della curva si trovava al momento del sinistro. In breve, ci serve a determinare il valore al momento del sinistro.

Questo è il punto di riferimento, il valore assicurativo nel vero senso della parola. Se ne comprendiamo il significato profondo, scopriamo che esso non esclude le merci.

Quando il codice civile enuncia il principio della sotto-assicurazione, o insufficienza della somma assicurata (art. 1907) parla di valore che la cosa aveva al tempo del sinistro.

Non è un caso, visto che nel codice civile ritroviamo tutto il rigore sintattico e terminologico che i testi assicurativi hanno perso per strada. Se adottiamo come riferimento il valore al momento del sinistro, noi ci agganciamo al valore lungo la sua curva di variazione nel tempo, fissato al momento in cui l’accadimento dannoso ha provocato il danno.

Questa curva
• quando segue il variare del valore attuale del bene durevole è un grafico in continua discesa, a causa dei fattori di invecchiamento e usura
• quando invece segue il variare del valore delle merci, è un grafico nel quale si susseguono fasi di crescita, di diminuzione o a valore costante, in quanto è legato a mutevoli e, talvolta contrastati, fattori di mercato Nel primo caso, quello dei beni durevoli, il valore al momento del sinistro può essere chiamato valore allo stato d’uso, mentre nel caso delle merci il valore al momento del sinistro mantiene questa definizione generale senza assumere un nome proprio.

Se si facesse riferimento generalizzato al valore al momento del sinistro, cestinando una volta per tutte quel valore allo stato d’uso, peraltro assai poco amato dagli operatori di mercato che vedono ormai nel valore a nuovo un diritto sindacale inalienabile, considerando chi non lo faccia alla stregua di chi non conoscesse lo smart-phone, o di chi circoli con un’auto sprovvista del servo-freno con ABS, forse si eviterebbero tanti equivoci in fase di liquidazione dei sinistri.

Come abbiamo accennato, sebbene il valore a nuovo sia un criterio che ha invaso la normativa contrattuale, il valore al momento del sinistro è il vero valore che la cosa ha per l’assicurato, nel momento in cui riceve gli effetti pregiudizievoli dell’evento dannoso ed è, al tempo stesso, il vero valore da assicurare.

Non a caso gli elaborati di stima redatti dalle società specializzate a valutare i valori dei beni durevoli da assicurare, evidentemente non contagiate dall’improprietà di linguaggio che domina lo scenario assicurativo, distinguono tra
• valore a nuovo e
• valore di assicurazione

Questa distinzione mette in evidenza che il valore a nuovo è alternativo al valore di assicurazione, come se non ne fosse nemmeno un caso particolare, mentre l’uso in ambito assicurativo di questa forma ha sostituito il legittimo valore di assicurazione, dopo un prolungato esordio nel quale il valore a nuovo era un oggetto di ostentazione da parte di chi lo proponeva.

3. Analisi della curva di degrado dei beni durevoli
Abbiamo visto che la curva che segue il variare del valore attuale del bene durevole è un grafico in continua discesa, a causa dei fattori di invecchiamento e usura.

Mentre per un macchinario facente parte di una linea di produzione industriale, il concetto di degrado dovuto all’uso è di immediata comprensione, la cosa si fa più fumosa e meno comprensibile quando parliamo di beni immobili.

In realtà un manufatto edilizio è soggetto anch’esso all’invecchiamento, anche se in tempi molto più lunghi. Il degrado dei beni durevoli ha una sua base tecnica, che trova riscontro nel bilancio societario, attraverso il meccanismo degli ammortamenti.
Tuttavia il tasso di ammortamento annuo di un bene per fini contabili e bilancistici si adatta ad esigenze dell’impresa di natura fiscale e di regolazione del risultato di esercizio e finisce quindi per avere solo una attinenza qualitativa col degrado fisico degli stessi beni, ma su un piano quantitativo si possono riscontrare degli scostamenti anche sostanziali.

Per comprendere il degrado di un macchinario di produzione, dobbiamo partire con la precisazione che il suo valore patrimoniale è dato dalla somma di
• una quota fissa minoritaria (valore materiale) e
• una quota maggioritaria (valore funzionale) che si consuma con l’uso e col passare del tempo.

Per i fabbricati la quota fissa, pur mantenendosi minoritaria, è più alta e i tempi di consumo della quota di valore funzionale sono molto più lunghi: ne deriva un tasso annuo di degrado molto più basso di quello dei macchinari.
Naturalmente, di fronte alla diversificazione selvaggia della natura dei beni cacciati sotto la partita macchinari dall’invadenza indiscriminata del principio di universalità, questi ragionamenti vanno, come si dice in gergo popolare, in cavalleria.

Ma di fronte alle insormontabili difficoltà che ne derivano, è invalso l’uso di ragionare sul valore della preesistenza della partita macchinari come se si trattasse di macchinari nel senso letterale del termine, dimenticandosi che la somma assicurata comprende cose di ogni sorta e ciò anche in merito alla stima di una eventuale sottoassicurazione.

Per non appesantire più del dovuto la trattazione che segue, decidiamo di piegarci alla logica incongruente che abbiamo sopra rappresentato.

4. La stima del danno secondo le due filosofie assicurative
Si osserva che quando ci troviamo a ragionare in merito a un bene di natura durevole (fabbricato o macchinario) stimiamo il costo della sua eventuale riparazione e lo confrontiamo con il suo valore al momento del sinistro, al netto del valore dei suoi residui.

Perché dunque, confrontiamo il costo dell’eventuale riparazione di un bene con il suo valore al momento del sinistro, considerato al netto del valore dei suoi residui? Perché il valore al momento del sinistro è considerato il massimo danno che l’assicurato possa subire, salvo che non riesca a contenerlo con delle spese di riparazione di importo minore.

In definitiva, le spese per la riparazione costituiscono la variabile del danno, mentre il valore del bene al momento del sinistro, il suo limite insuperabile. Vediamo di analizzare in profondità il significato di ciò che abbiamo fin qui detto.

È curioso come, pur consapevoli che il ragionamento che segue fa finta di credere che i macchinari, nella loro accezione assicurativa, siano delle macchine propriamente dette, lo facciamo lo stesso per pagare pegno all’atto col quale, verso la fine del paragrafo precedente ci siamo piegati alla incongruenza assicurativa.

Ricordando che un macchinario ha un valore composito, costituito dalla somma di
• una componente materiale e di
• una componente funzionale possiamo dire che il sinistro che colpisca il macchinario cagionerebbe un abbattimento istantaneo della sua quota di valore funzionale, lasciando intatto la quota fissa.

Quest’ultima rap presenta il residuo che andiamo a sottrarre dal valore che la cosa aveva al momento del sinistro.

Facciamo attenzione al ragionamento che diventa il cardine di questa trattazione: se noi deduciamo dal valore del bene usato come si trovava nell’istante che ha preceduto il sinistro, il valore del rottame a cui il sinistro stesso lo ha ridotto, cosa otteniamo?

La diminuzione di valore del bene a causa del suo danneggiamento
Verosimilmente questa diminuzione coincide con la quota di componente funzionale residua che il bene perde istantaneamente con il suo danneggiamento.
Questo parametro è la stella polare dei calcoli che vengono fatti per la stima del danno in base al valore al momento del sinistro: considerare il danno economico pari alla diminuzione del valore della cosa danneggiata, salvo che non costi meno ripararla.

Osserviamo che si tratta di un ragionamento squisitamente patrimoniale, che si sofferma sul carattere patrimoniale del danno subito e non sulla funzionalità del bene. Infatti se rinunciamo a riparare il bene perché costa più della perdita di valore che esso ha subito a causa del danno, significa che ciò che importa per noi è il valore patrimoniale, mentre il costo della riparazione è tenuto in considerazione solo se permette all’assicuratore di risparmiare sull’esborso dell’indennizzo calcolato su base patrimoniale.

Ma un bene strumentale in ambito industriale non ha valore solo per la sua sostanza patrimoniale, ma perché la sua sostanza patrimoniale o, più precisamente, la sua componente funzionale è un credito tecnico-funzionale che ci permette di fruire della produttività cui quel bene necessariamente contribuisce. In quest’ottica, ci serve comunque ripararlo, a prescindere dal fatto che ci costi di più o di meno della perdita di valore patrimoniale subìta a causa del sinistro.

In questa logica utilitaristica, quand’è che la riparazione non conviene più? Quando il suo costo supera il costo di acquisto a nuovo.
Quindi le alternative non sono più la riparazione o la conservazione del rottame con risarcimento della perdita di valore, ma due possibilità, tra le quali l’assicuratore fa una scelta conservativa, ma entrambe finalizzate a riguadagnare la capacità operativa che il bene danneggiato garantiva prima di essere compromesso dal sinistro.

Abbiamo così scoperto una nuova dicotomia, che supera e cestina quella che per anni ha visto contrapporsi il valore allo stato d’uso e il valore a nuovo:
1) la filosofia assicurativa su base patrimoniale
2) la filosofia assicurativa su base funzionale

La filosofia assicurativa su base patrimoniale è quella che sta dietro all’assicurazione tradizionale che è basata sul valore al momento del sinistro (che per i beni durevoli coincide con il valore allo stato d’uso), mentre
La filosofia assicurativa su base funzionale è quella che sta dietro all’assicurazione basata sul valore a nuovo. Se all’esordio della trattazione abbiamo osservato che non ha senso parlare di valore a nuovo o allo stato d’uso con riferimento alle merci, ora possiamo senza dubbio domandarci a quale delle due suddette filosofie assicurative si adegua il metodo comunemente seguito dai periti nella stima dei danni alle merci e indagare sulla risposta.

5. La stima del danno alle mercia qual e filosofia assicurativa si allinea?
Le merci non sono soggette a deprezzamento per vetustà, ma nonostante questo per esse può essere stimato un valore al momento del sinistro, dato dal costo delle materie prime, addizionato del costo della lavorazione effettuata perché il processo di trasformazione porti i prodotti nello stato in cui si trovavano nell’istante precedente l’accadimento dannoso.

Aver citato il valore delle merci al momento del sinistro non ci autorizza ad affermare che le merci si assicurano col metodo dell’assicurazione allo stato d’uso, ma se procediamo nell’analisi senza lasciarci condizionare, magari facciamo delle scoperte interessanti.

Contabilmente le merci sono considerate capitale circolante, al pari del danaro contante. Nella terminologia industriale le merci si suddividono in
• materie prime
• prodotti semilavorati o in corso di lavorazione
• prodotti finiti Nella terminologia merceologica, le materie prime sono quelle destinate ad un uso diretto o ad un processo di trasformazione, ma che in entrambi i casi non hanno subito nessuna precedente manipolazione.

In genere sono prodotti della terra, minerali, l’acqua e, in generale, gli elementi chimici o i composti chimici che si trovano in natura.

Il prodotto semilavorato e quello in corso di lavorazione hanno in comune la caratteristica di aver già subito una parte di lavorazione.
La differenza tra le due tipologie sta nel fatto che si definisce semi-lavorato un prodotto che ha già subito una prima lavorazione, o una prima serie di lavorazioni prima di entrare nel ciclo produttivo della nostra impresa, e prodotto in corso di lavorazione un prodotto che ha subito una parte delle lavorazioni all’interno del nostro processo produttivo.

Un prodotto finito è un prodotto che si trova nello stato pronto all’uso del consumatore. Se si tratta di macchine di uso industriale, il consumatore è in realtà una impresa industriale, che di quel prodotto farà uso come di un bene strumentale.

Nella logica assicurativa la terminologia segue un punto di vista soggettivo dell’assicurato e fotografa lo stato delle cose al momento del sinistro. Perciò:

Materie prime sono i materiali e i componenti che al momento del sinistro si trovano allo stato in cui sono stati acquistati, prima di essere sottoposti al processo produttivo. È molto raro che siano materie prime nel senso merceologico del termine.

Semilavorati sono le merci per le quali il sinistro ha interrotto il processo di trasformazione prima che fosse completato.

Prodotti finiti sono le merci che, al momento del sinistro, si trovavano ad aver subìto l’intero processo di lavorazione.

La valutazione delle merci non può che essere fatta su base patrimoniale.
La valutazione su base funzionale ha un senso solo se ci riferiamo a beni che debbano servire in funzione di una finalità.

Le merci sono la finalità dell’attività produttiva. Abbiamo detto che:
• la filosofia assicurativa a base funzionale caratterizza l’assicurazione al valore a nuovo, mentre
• quella a base patrimoniale caratterizza l’assicurazione basata sul valore allo stato d’uso significa dunque che, senza dichiararlo, le merci vengono assicurate in base al loro valore allo stato d’uso? No, perché le merci non possono essere nella condizione di usato, salvo che non siano in uso al consumatore.

Però è vero che le merci sono assicurate sulla base della filosofia assicurativa patrimoniale, che è la stessa adottata per l’assicurazione dei beni durevoli allo stato d’uso.

6. La riparazione delle mercicontrattualmente non prevista ma possibile
Nella maggior parte dei settori merceologici, vi sono merci suscettibili di riparazione, ammesso che sia possibile con la riparazione eliminare tutti i problemi causati dal sinistro.

Per esse il danno è pari al costo della riparazione, con il massimo del valore patrimoniale come sopra definito.
Non esiste nessun testo di polizza property che tratti della riparabilità delle merci, ma questa è una realtà imprescindibile del tessuto industriale.

Nel caso di una merce non riparabile, il danno dovrebbe essere parificato alla perdita di valore patrimoniale a seguito del danneggiamento, ma in realtà raramente esiste un criterio per valutare il valore di una merce danneggiata, che istintivamente verrebbe considerato pari a zero, salvo che non si tratti di un prodotto costituito da componenti assemblate, fra le quali se ne possano individuare una o più che una volta smontate fossero riutilizzabili. Altrimenti il danno corrisponde al costo del rifacimento da zero delle merci danneggiate in modo irreparabile.

Ma attenzione! Il costo del rifacimento deve necessariamente essere quello calcolato al momento del sinistro, rispetto al quale il momento del ripristino potrebbe essere differito di un periodo di qualche mese, nel corso del quale i costi, specie quelli delle materie prime, potrebbero essere radicalmente cambiati.

Ed il cambiamento dei costi di mercato è tanto maggiore quanto più tempo trascorre dalla data del sinistro al momento in cui si devono tirare le somme per definire con i Periti, la quantificazione dell’indennizzo dovuto a termini di polizza.
Questo accenno dà una vaga idea dell’odissea in cui si possa trovare un assicurato, che specie in casi di sinistri complessi che richiedono tempi lunghi per la loro definizione, e specie se il sinistro abbia colpito tipologie di merci in gran numero e in grande varietà, possono portare all’obbligo di risalire per una lista numerosa ed eterogenea di merci, ai costi di acquisto delle materie prime al momento del sinistro, che potrebbero risultare anche irreperibili.

Questo ordine di difficoltà, con le quali chi scrive si è trovato ad aver a che fare per esperienza diretta, potrebbe suggerire di istituire una nuova normativa per il calcolo della pre-esistenza e del danno alle merci, che non abbia ad incontrare tutti questi ostacoli.
Se si sostituisse il riferimento ai costi di mercato con quello ai valori contabili, tutti i dati necessari sarebbero reperibili nella contabilità interna dell’impresa assicurata, considerando inoltre che il valore contabile delle merci è il valore effettivo che le merci hanno per l’assicurato.

È una piccola rivoluzione che auspico nel mondo assicurativo, che si ispira assai poco ad un ideale di contestazione, ma molto ad un pragmatismo reso necessario dalle difficoltà oggettive che periti ed assicurati incontrano nel valutare il danno e l’indennizzo dovuto a termini di polizza.

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