GIURISPRUDENZA

Brevi riflessioni sull’impignorabilità e sul ruolo degli intermediari – Autore: Marco Rossetti – ASSINEWS 346 – novembre 2022   

L’impignorabilità degli indennizzi dovuti dall’assicuratore sulla vita era in origine una misura vòlta a tutelare il risparmio. Ma l’avvento dei prodotti misti assicurativi-finanziari ha fatto saltare gli schemi, e oggi non è raro che si ricorra ad uno di questi contratti ibridi per sottrarre le proprie disponibilità finanziarie ai creditori. Si può fare? E l’intermediario consapevole è un “complice”?

1. Un uomo previdente.

Tizio, volendo stipulare un’assicurazione sulla vita, si rivolse ad un intermediario finanziario. Il previdente giovanotto dichiarò senza mezzi termini all’intermediario (almeno così riferiscono gli atti giudiziari) di volere stipulare un’assicurazione sulla vita “allo scopo di conseguire l’impignorabilità delle somme dovutegli dall’assicuratore”.

L’intermediario (una banca) gli propose allora un bel contratto – come ce ne sono tanti – formalmente intitolato “assicurazione sulla vita”; gli consegnò come da copione i soliti sei chilogrammi di moduli da firmare, ivi compresa la nota informativa nella quale si proclamava solennemente che “le somme dovute dall’assicuratore in virtù del presente contratto non sono pignorabili né sequestrabili”.

1.1. Tizio, però, aveva un creditore. E questo creditore evidentemente doveva essere particolarmente tignoso, perché in mancanza d’altro andò a pignorare il credito di Tizio verso l’assicuratore: praticamente, un importo pari ai (cospicui) premi versati. Il nostro debitore ovviamente propose opposizione all’esecuzione, ed all’esito del relativo giudizio ex art. 615 c.p.c. ecco la sorpresa, tanto brutta per lui, quanto gradevole per il creditore pignorante: quel contratto, sentenziò il Tribunale, non era affatto un’assicurazione sulla vita, checché: quel contratto era un normale contratto di investimento finanziario.

1.2. Non sappiamo su quali argomenti il Tribunale ritenne di fondare tale decisione, ma certamente dovettero essere assai convincenti, perché a questo punto il nostro assicurato lasciò stare il processo esecutivo, ed iniziò una bella causa di annullamento del contratto per errore, nei confronti congiuntamente dell’assicuratore e dell’intermediario.

A fondamento della domanda articolò un ragionamento del seguente tipo:

-) io volevo un contratto di assicurazione, perché mi serviva l’impignorabilità, e glielo dissi anche, all’intermediario;

-) l’intermediario mi ha venduto un prodotto finanziario invece di un’assicurazione sulla vita;

-) quindi io sono caduto in errore: e poiché l’errore era rilevante e riconoscibile, ora voglio che il contratto sia annullato (art. 1427 c.c.) e l’intermediario condannato al risarcimento dei danni, insieme con l’assicuratore preponente.

2. Tanti problemi sul tappeto.

La vicenda appena riassunta ha messo sul tavolo del giudicante molti e complessi problemi, alcuni dei quali – ma non tutti – affrontati e risolti da una recente sentenza della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III, 27.7.2022 n. 23409).

Questi problemi possono così riassumersi:

a) chi doveva provare l’esistenza dell’errore e la sua riconoscibilità da parte dell’intermediario?

b) è lecito stipulare un contratto di assicurazione al solo fine di sottrarre al creditore una somma di denaro e renderla impignorabile?

c) l’intermediario che si presta a una simile operazione risponde verso il creditore dell’assicurato?

d) e se invece l’intermediario non si presta a una simile operazione, risponde nei confronti dell’assicurato? (L’intermediario, il sagace lettore lo avrà intuito, ancora una volta viene a trovarsi tra l’incudine e il martello).

Proviamo a rispondere con un po’ d’ordine.

3. L’onere della prova.

Se il consenso di una delle parti “fu dato per errore” il contratto è annullabile (articolo 1427 c.c.); l’errore, tuttavia, per portare all’annullamento del contratto, deve essere essenziale e riconoscibile. L’errore è essenziale quando cade sulla natura o sull’oggetto del contratto (art. 1429, primo comma, n. 1, c.c.): e ovviamente non possono nutrirsi dubbi sul fatto che costituisca un errore essenziale quello di chi in buona fede crede di stipulare una polizza di assicurazione sulla vita e invece sta stipulando un contratto avente ad oggetto l’acquisto di strumenti finanziari.

L’errore, poi, è riconoscibile, quando “in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto ovvero alla qualità dei contraenti, una persona di normale diligenza avrebbe potuto rilevarlo” (art. 1431 c.c.).

Dunque l’errore di chi, volendo stipulare un’assicurazione sulla vita, acquista uno strumento finanziario, può condurre all’annullamento del contratto solo se tale errore poteva essere rilevato da un “intermediario di normale diligenza”. L’intermediario è un professionista, e la diligenza del professionista va valutata non alla stregua della condotta che nelle medesime circostanze avrebbe tenuto un qualsiasi “buon padre di famiglia”, ma alla stregua del più rigoroso criterio di cui al secondo comma dell’articolo 1176 c.c.: vale a dire comparando la condotta tenuta dall’intermediario con la condotta ideale che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto l’homo eiusdem generis et condicionis, vale a dire un modello teoricamente perfetto di intermediario.

Va da sé che la relativa prova può risultare in concreto particolarmente difficile a darsi, quale che sia la parte sulla quale si faccia ricadere il relativo onere.

Da un lato, infatti, non è certo agevole per l’assicurato dimostrare di avere espressamente richiesto all’intermediario un contratto di assicurazione sulla vita, al fine di garantirsi l’impignorabilità; dall’altro lato, però, non è meno agevole per l’intermediario dimostrare di non aver ricevuto alcuna richiesta in tal senso dall’assicurato.

Si comprende dunque come in una controversia di questo tipo diventa fondamentale stabilire come debba ripartirsi l’onere della prova, e altrettanto fondamentale diventa stabilire se all’azione di annullamento del contratto per errore-vizio sia applicabile l’articolo 178 del codice delle assicurazioni.

Tale norma stabilisce infatti che “nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al contraente di un contratto di assicurazione sulla vita (…) spetta all’impresa l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.

3.1. Proprio questa questione (l’applicabilità dell’articolo 178 codice delle assicurazioni all’azione di annullamento del contratto per errore) è stata decisa dalla Corte di Cassazione con la sentenza sopra ricordata (23409/22), e lo è stata nel senso che la suddetta norma non si applica all’azione di annullamento del contratto per errore.

Tale soluzione è stata argomentata dalla Corte di Cassazione sulla base di due argomenti: la lettera della legge e l’oggetto della prova.

La lettera della legge – ha osservato la S.C. – parla esclusivamente di “giudizio di risarcimento danni”, e dunque la previsione del codice non può essere estesa a giudizi di tipo diverso, quale l’azione di annullamento contrattuale.

Quanto all’oggetto della prova, ha osservato la Corte di Cassazione che l’art. 178 cod. ass. impone all’impresa assicuratrice “di aver agito con la specifica diligenza richiesta”, ma nel caso in cui l’assicurato incorre in un errore, ciò che deve essere accertato non è se l’impresa assicuratrice abbia “agito”, ma soltanto se abbia “riconosciuto” l’errore stesso.

All’azione di annullamento del contratto per errore troveranno dunque applicazione i principi generali tante volte affermati dalla Corte di Cassazione con riferimento a contratti diversi da quello di assicurazione, e cioè che è onere di chi chiede l’annullamento del contratto dimostrare sia di essere caduto in errore, sia che l’errore era essenziale, sia che l’errore poteva essere riconosciuto dalla controparte (ex multis, Cass. civ., sez. lav., 09-03-2011, n. 5552; Cass. civ., sez. II, 13-03-2006, n. 5429; Cass. civ., sez. III, 08-06-2004, n. 10815; Cass. civ., sez. II, 19-08- 1998, n. 8201).

Secondo tutte le decisioni appena ricordate, “la parte che deduce di essere incorsa in un errore di fatto sulla natura di un contratto e ne chiede l’annullamento deve indicare quale altro contratto intendeva concludere, mentre per l’errore sull’oggetto deve dimostrare che l’errore cade sull’identità di esso; essa inoltre ha l’onere di dimostrare l’essenzialità dell’errore e la sua riconoscibilità dalla controparte con l’uso dell’ordinaria diligenza”.

3.2. Applicando questi princìpi la S.C. ha confermato la decisione di merito che aveva rigettato la pretesa attorea, sul presupposto che l’assicurato:

a) non aveva provato di avere espressamente richiesto la stipula di un contratto che lo mettesse al riparo dal rischio di pignoramento delle somme investite;

b) non aveva provato che il suo errore fosse conosciuto o conoscibile dall’intermediario;

c) la mera circostanza che all’assicurato fosse stato consegnato un prospetto nel quale si garantiva l’impignorabilità, in assenza delle prove sub (a) e (b), era irrilevante.

Tutto chiarito, dunque? Ahimé, no.

Se infatti la Corte ha chiarito che l’art. 178 cod. ass. non s’applica alle azioni di annullamento (sospiro di sollievo per gli intermediari), molti altri problemi restano sul tappeto, irrisolti.

4. E lazione di danni?

Immaginiamo che il nostro assicurato, invece di chiedere l’annullamento del contratto (scelta improvvida, per quanto si dirà), avesse deciso di chiedere solo il risarcimento del danno da inadempimento dell’obbligo informativo. Gli sarebbe andata meglio? Probabilmente sì.

L’intermediario (tanto assicurativo quanto finanziario) è infatti legato da un contratto all’assicurato (o almeno lo era nel caso di specie, trattandosi di una banca); fornire alrisparmiatore una completa informazione è un obbligo di fonte legale; la violazione dell’obbligo informativo legittima l’assicurato a domandare il risarcimento del danno.

Ed in un giudizio di danno il nostro assicurato non avrebbe affatto avuto da superare lo scoglio della prova della riconoscibilità dell’errore. Gli sarebbe bastato dedurre e provare che:

a) era stato informato per iscritto dell’impignorabilità della somma investita;

b) la somma investita era stata invece pignorata;

c) il pignoramento era stato ritenuto legittimo dall’autorità giudiziaria.

Se dunque avesse optato per una azione di danno, il nostro assicurato avrebbe avuto dinanzi a sé una strada spianata per ottenere sia l’affermazione della responsabilità dell’intermediario (e, per lui, dell’assicuratore), sia una pronuncia di condanna.

5. Il diavolo fa le pentolenon i coperchi.

Sin qui si sono esposte le technicalities della vicenda. Resta però sullo sfondo un enorme problema “di sistema”, non esaminato dalla Corte (ma che non poteva essere esaminato, perché non dedotto in giudizio).

E il problema è il seguente: è possibile stipulare una polizza vita al solo fine di sottrarre parte del proprio patrimonio all’azione esecutiva dei creditori?

E può essere ritenuto meritevole di tutela la pretesa di chi, volendo frodare i creditori, non ci riesca “per errore”?

5.1. Il primo problema è il più semplice: ovviamente non è possibile stipulare un’assicurazione per frodare i creditori.

Il debitore risponde dei propri debiti con tutti i propri beni presenti e futuri (art. 2740 c.c.), ed al di fuori delle ipotesi previste dalla legge non è consentito precostituirsi patrimoni separati.

Dunque anche la stipula d’una assicurazione sulla vita, se compiuta in frode dei creditori, potrà essere resa inefficace verso questi ultimi mediante il ricorso all’azione revocatoria (art. 2901 c.c.).

Lo stabilisce espressamente il secondo comma dell’art. 1923 c.c., il quale fa salve “rispetto ai premi pagati” le norme sull’azione revocatoria (art. 2901 c.c.), sulla collazione (art. 737 c.c.), sull’imputazione (art. 751 c.c.) e sulla riduzione (artt. 555 e ss. c.c.) delle donazioni.

La norma ovviamente riguarda soltanto i creditori e gli eredi del contraente, in quanto il beneficiario d’una polizza vita non è obbligato al pagamento del premio.

I creditori del contraente possono dunque far dichiarare inefficace nei propri confronti il pagamento dei premi, ove ricorrano i requisiti prescritti dagli artt. 2901-2904 c.c. ovvero, nel caso di revocatoria fallimentare, quelli di cui all’art. 67 l. fall..

L’azione revocatoria può essere proposta dai creditori del contraente sia nel caso in cui questi abbia stipulato un’assicurazione a favore proprio, sia nel caso in cui abbia stipulato un’assicurazione a favore di terzi. Nel primo caso legittimato passivamente sarà l’assicuratore, nel secondo caso legittimato passivo sarà il beneficiario, perché è questi che riceve un vantaggio dall’atto di disposizione patrimoniale (pagamento del premio) compiuto dal contraente. Spetterà ovviamente al creditore dimostrare l’eventus damni e la scientia fraudis del terzo. Ovviamente nulla rileva se, al momento dell’introduzione della domanda, il rischio dedotto nella polizza si sia verificato o meno.

Agli eredi del contraente, i quali assumano che il pagamento dei premi abbia leso la loro quota di legittima, l’art. 1923, comma 2, c.c., appresta tutela espressamente prevedendo l’applicabilità ai premi pagati:

a) delle norme sulla collazione delle donazioni (art. 737 c.c.): ciò vuol dire che il coniuge, i figli od i discendenti del contraente, se siano stati indicati nella polizza come beneficiari, alla morte del contraente debbono conferire nell’asse l’importo dei premi pagati dal decuius, salvo dispensa effettuata dal testatore (la quale comunque è efficace solo nei limiti della quota disponibile: art. 737 c.c.);

b) delle norme sull’imputazione delle donazioni in denaro (art. 751 c.c.)1: ciò vuol dire che il soggetto obbligato alla collazione, invece di conferire nell’asse i premi pagati a suo favore per 100, e riscuotere quale quota ereditaria 500, dovrà riscuotere dall’asse ereditario direttamente 400;

c) delle norme sulla riduzione delle donazioni eccedenti la quota disponibile (art. 555 e ss. c.c.): ciò vuol dire che il terzo beneficiario, in caso di vittorioso esperimento dell’azione di riduzione, dovrà restituire all’asse un valore pari al coacervo dei premi pagati dal defunto, detratto l’importo della quota disponibile (artt. 559 c.c.).

Gli eredi del contraente in definitiva sono tutelati dalla legge solo se:

a) l’assicurazione sulla vita sia stata stipulata favore del terzo;

b) a designazione del terzo beneficiario sia stata effettuata a titolo di liberalità.

Il primo requisito non necessita di spiegazioni: gli eredi del contraente non possono infatti dolersi dell’uso che il de cuius ha fatto del proprio denaro e per il proprio tornaconto.

Il secondo requisito è necessario perché solo la donazione può essere soggetta a riduzione e/o collazione. Pertanto, se la designazione del terzo fosse avvenuta – ad esempio – solvendi causa, agli eredi del contrante non sarà data alcuna azione nei confronti del terzo beneficiario, nemmeno se il coacervo dei premi pagati ecceda la quota disponibile. Ovviamente nel giudizio di riduzione proposto ai sensi dell’art. 1923 c.c. la causa di liberalità può presumersi ex art. 2727 c.c. per il solo fatto che sia dimostrata la designazione del terzo, mentre sarà onere di quest’ultimo dimostrare che la propria designazione quale beneficiario del contratto sia avvenuta a titolo oneroso.

5.2. Il secondo problema è più complesso, ma – per non tediare troppo il lettore, certamente già stanco se mi ha seguito sin qui – lo potremmo risolvere così: esiste un principio generale dell’ordinamento, per cui nessuna condotta illecita può trovare in esso tutela (fraus omnia corrumpit).

Orbene, chi volesse stipulare un contratto di assicurazione al solo fine di sottrarsi all’azione esecutiva da parte dei suoi creditori, e per errore stipulasse un contratto diverso, non potrebbe pretendere di far valere il proprio errore.

Il paradossale esito, infatti, d’una azione di annullamento consisterebbe nel consentire al debitore di portare a termine il proprio disegno fraudolento in danno dei creditori.

5.3. Resta da dire dell’intermediario: se questi, essendo a conoscenza dell’intento fraudolento dell’assicurato, lo agevola, si rende corresponsabile verso i creditori dell’assicurato stesso?

Certamente sì. Da tempo la giurisprudenza ha infatti ammesso la figura del “danno da lesione del credito”, e il caso in esame potrebbe rappresentare un pregiudizio di questo tipo. Si pensi all’ipotesi dell’assicurato che stipuli un contratto in frode dei creditori; che costoro si vedano bloccare l’azione esecutiva dall’eccezione di impignorabilità; che prima del promovimento dell’azione revocatoria da parte dei creditori il terzo occulti l’indennizzo pagatogli dall’assicuratore, e resti impossidente. In una simile ipotesi il credito verso l’assicurato è andato perduto, ed alla sua perdita ha fornito un valido nesso di causa l’intermediario: di qui la sua responsabilità verso il creditore dell’assicurato.

Insomma, chi s’accompagna al mugnaio prima o poi s’infarina.


1 Ovviamente solo quelle sull’imputazione del denaro, posto che sia il premio, sia l’indennizzo vengono pagati in denaro.

Marco Rossetti Consigliere della Corte di Cassazione Terza Sezione Civile

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