Mauro Bottarelli
Un copione degno di un film. Anzi, una serie di quelle che tengono con il fiato sospeso e che fanno contare le ore in attesa dell’episodio successivo. Peccato che sia la realtà. E che stia per prendere una piega potenzialmente devastante. Quanto accaduto alle porte di Mosca ieri sera, la morte della figlia del filosofo filo-Putin, Alexander Dugin, nello scoppio di un’autobomba è qualcosa che va oltre oltre gli effetti collaterali della guerra. E’ un salto di qualità. E’ lo sparo di Sarajevo 2.0.
Perché comunque sia andata, la morte di Darya Dugina non resterà senza conseguenze. E il motivo sta proprio nel concatenarsi di eventi che ha portato a quel botto a 20 chilometri dalla capitale russa. Doveva morire Aleksander Dugin e invece il destino ha voluto che lui e la figlia si dividessero, prendendo auto differenti? Anche in questo caso, poco cambia. E’ la narrativa che conta. Da giorni, milizie ucraine colpivano obiettivi in Crimea e in Bielorussia, utilizzando droni in grado di centrare anche obiettivi sensibili come depositi di armi e il quartier generale della flotta russa. Reazione di Mosca? Nulla. Il silenzio assoluto.
In compenso, la stampa occidentale – in Italia rappresentata da Corriere della Sera e Domani – sdoganava il nuovo corso della guerra: l’esercito ucraino lasciava spazio ai partigiani, il conflitto diventava guerriglia resistenziale. La Crimea diventava romantica Terra promessa di guerriglieri idealisti. Sembra di rivivere gli anni dell’adulazione mal mascherata verso l’Ira. La quale, non a caso, tenne testa alla Thatcher solo grazie ad armi e fondi garantiti dalla lobby irlandese statunitense. E dai Kennedy che fingevano di non vedere. E’ storia, Piaccia o meno.
Mosca tace. Non reagisce. Nonostante quei droni abbiano colpito prima l’orgoglio dell’obiettivo. Poi, di colpo, l’autobomba. I partigiani ucraini hanno alzato il tiro e il livello dello scontro. Come l’Ira che reagiva alle truppe britanniche per le strade di Belfast colpendo i pub di Londra e Manchester, ecco che la figlia di uno degli ideologi più vicini al Cremlino viene dilaniata a 20 chilometri dalla capitale. La Russia colpita al cuore. E con una simbologia talmente ridondante da apparire sospetta. Perché ciò che il mondo ora deve attendersi, è la reazione di Mosca.
La quale non tratterà la questione ucraina come Londra fece con l’Irlanda del Nord, bensì come il neo-premier Vladimir Putin fece con i separatisti ceceni. I quali seguirono il medesimo schema: prima attacchi in patria, poi attentati dinamitardi a Mosca e San Pietroburgo. Nella metro, nei centri commerciali. Quale fu l’epilogo della repressione del Cremlino è noto a tutti. E non basta.
Perché mentre i droni e i missili ucraini, forniti o finanziati da denaro occidentale, colpivano i bersagli di quella Crimea che Zelensky ha promesso di voler riconquistare, ecco che la Russia avanzava il sospetto supremo: in almeno un’occasione, l’esercito di Kiev avrebbe utilizzato la tossina del botulino di tipo B, la proteina più tossica conosciuta in natura, contro i propri militari nell’area di Zaporizhzhia, dove si trova la centrale nucleare più grande d’Europa. Vero? Falso? Poco cambia: Zaporizhzhia è come la criptonite per Superman. L’alibi perfetto, l’incubo atomico che diviene cronaca.
Insomma, Mosca tace ma accumula armi nel proprio arsenale. Non missili e bombe. Bensì, giustificazioni. Casus belli. E conviene essere chiari: quanto sta per accadere, con ogni probabilità cambierà tutto. In peggio. E con forte rischio che la situazione sfugga dal controllo anche in ambito Nato e non solo locale. Cosa lo suggerisce, oltre al precedente ceceno e alla sceneggiatura finora perfettamente interpretata dalle parti? Questo,
ovvero la conferma di quanto sottolineato due giorni fa: il Comex si è tramutato in un bancomat di oro fisico. Bene, stando alla rendicontazione ufficiale del CME Group, riscontrabile utilizzando quei termini di ricerca presenti in alto nell’immagine, nella sola giornata di venerdì 19 agosto, dal caveau di barre da un chilo del Comex è stato prelevato il 41% del metallo fisico presente. In un solo giorno.
Anche volendo far volare la fantasia, esistono solo tre ipotesi. Prima, una o più delle quattro bullion banks statunitense che detiene derivati sull’oro con ratio stellare rispetto alla disponibilità sottostante di consegna, ha dovuto far fronte a una richiesta in tal senso da parte di un grosso player. Il quale ha fiutato qualcosa sul mercato o, peggio, negli accadimenti geopolitici. Ed è andato all’incasso del bene rifugio per antonomasia, Anche dall’inflazione. Seconda, sempre una o più delle Big Four ha capito che i toni millenaristici utilizzati finora da media e politica nel descrivere la contrapposizione fra Est e Ovest che ha come proxies Ucraina e Taiwan sono diventati appropriati. E non più iperbolici. E ha pensato che fosse saggio fare incetta, prima che sia tardi. Perché se esiste un hedging supremo alla guerra, quella vera, è l’oro. Il resto fluttua e gioca con la speculazione, petrolio in testa. L’oro no.
Terza e direttamente consequenziale alla seconda, quella che fa riferimento a questa dinamica:
stando a dati delle Dogane svizzere, le importazioni di oro della Cina dalla Confederazione Elvetica sono salite a 80 tonnellate nel mese di luglio, più del doppio di giugno e otto volte quelle di maggio. D’altronde, se sai che stai per invadere Taiwan e questo porterà sanzioni, è normale scaricare debito Usa – come Pechino sta facendo da sette mesi di fila – e acquistare assets che si fanno un baffo dei bandi internazionali. E che potrebbero garantire la nuova valuta dei Brics.
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