L’ALLARME EMERSO DAI REPORT DI DELOITTE E FONDAZIONE OPENPOLIS SUI CAMBIAMENTI AMBIENTALI
di Antonio Longo
Ammonta a 178 mila miliardi di dollari il costo del cambiamento climatico da affrontare, a livello globale, nei prossimi cinquant’anni. E seppur esso sia causato principalmente dai paesi ad alto reddito, colpisce asimmetricamente i più poveri, imponendo loro costi che non sono in grado di coprire. È quanto emerge dal report «Global turning point report 2022» di Deloitte e dal focus dedicato al tema dalla fondazione Openpolis.

Quanto costa non agire. Secondo gli analisti di Deloitte, per mitigare i costi causati dai mutamenti del clima occorre mettere in campo, in maniera risoluta, azioni mirate per accelerare rapidamente il processo di decarbonizzazione. Ciò potrebbe generare fino a 43 trilioni di dollari di benefici aggiuntivi nei prossimi cinque decenni. In tale contesto previsionale, nel 2070 la perdita media annua del pil si assesterebbe sul -7,6%, rispetto a uno scenario non affetto dal cambiamento climatico. «Un cambiamento negli stili di vita, di consumo e di produzione, unito a un riorientamento dei flussi di capitale e a un ricorso massiccio alle nuove tecnologie, sono elementi fondamentali per mantenere l’aumento della temperatura media terrestre entro 1,5°C a fine secolo, traguardo ancora raggiungibile se agiamo con determinazione fin da ora», evidenzia Stefano Pareglio, independent senior advisor di Deloitte, «finanza e tecnologia rappresentano, , leve decisive per sostenere un cambiamento duraturo e diffuso che rappresenterebbe anche una straordinaria occasione di crescita economica e di sviluppo per nuove industrie e aree del pianeta».

I fattori su cui agire. Secondo il report di Deloitte, sono quattro gli elementi chiave su cui agire per favorire la decarbonizzazione a livello globale. In primis, la collaborazione tra settore pubblico e privato per la costruzione di politiche efficaci. Altrettanto importanti sono gli investimenti da parte delle imprese e dei governi per promuovere cambiamenti strutturali nell’economia globale tali da privilegiare le industrie a basse emissioni e accelerare la transizione verde, così come l’impegno in ogni area geografica a gestire i rispettivi «turning points», ossia il momento in cui i benefici della transizione verso la neutralità carbonica superano i corrispondenti costi. Infine, i sistemi economici e sociali locali devono promuovere un futuro più sostenibile, ovvero un’economia decarbonizzata in grado di crescere a tassi maggiori rispetto a una equivalente economia carbon-intensive. Tali indicazioni, come sottolineano gli esperti, appaiono in linea con le evidenze del VI Assessment report – WG II dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) per il quale un ritardo nell’azione di mitigazione delle emissioni climalteranti metta a rischio il futuro del pianeta. Infatti, il costante aumento della temperatura media terrestre e il livello attuale e prospettico delle emissioni impongono urgenti azioni di adattamento, le quali però, superata la soglia di 2°C, oltre a divenire assai più costose, perderebbero efficacia.

Focus sul Mare Nostrum. Il Mediterraneo si è riscaldato e continuerà a riscaldarsi più della media mondiale, già oggi la temperatura media è di +1,5°C rispetto al livello preindustriale, contro una media globale di +1,1°C. Come si legge nel rapporto, per quanto riguarda l’Italia con uno scenario di riscaldamento globale di circa 3°C si verrebbero a verificare enormi danni in termini economici, ambientali e per la salute umana. Nei prossimi 50 anni, secondo il report di Deloitte «Italy’s Turning Point – Accelerating New Growth On The Path To Net Zero 2021», tale scenario costerà circa 115 miliardi al 2070, l’equivalente di una caduta del 3,2% del pil al 2070. Nello specifico, la risorsa acqua è e sarà la più critica nell’area mediterranea, come testimonia la siccità di questi mesi.

Le «disuguaglianze» climatiche. La crisi climatica continua a inasprire le disuguaglianze preesistenti. Ciò è messo in evidenza dal report curato da Oxfam sul costo del cambiamento climatico e la sua diseguale distribuzione su cui hanno focalizzato le proprie analisi gli esperti della fondazione Openpolis. Se da un lato i paesi più poveri del mondo sono quelli che meno contribuiscono al cambiamento climatico, dall’altra parte sono i più colpiti dalle conseguenze che ne derivano. E sono, inoltre, meno forniti di infrastrutture, barriere e tecnologie per difendersi dagli eventi climatici estremi e seppur in tale situazione di difficoltà ricevono aiuti insufficienti dai paesi più ricchi. I paesi ad alto reddito, che comprendono i paesi membri dell’Ue, Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Giappone e Israele, nonché molti stati della penisola arabica e vari territori occidentali oltremare, emettono anidride carbonica in misura significativamente maggiore rispetto ai paesi più poveri le cui emissioni ammontano all’1% di quelle dei paesi ricchi. Come rileva Oxfam, l’Africa ospita il 17% della popolazione mondiale ma è responsabile del 4% del totale delle emissioni a livello globale. Un rapporto che risulta capovolto nel caso dei paesi più ricchi che contribuiscono per il 37% delle emissioni globali pur ospitando il 15% della popolazione. Gli esperti di Openpolis citano come esempio proprio l’Italia che con circa 325 milioni di tonnellate di Co2 emesse ogni anno pesa più del Pakistan (208 milioni), un paese con una popolazione circa quattro volte più grande ma meno dell’Arabia saudita (515 milioni) che ha appena 34 milioni di residenti. Sono, però, i paesi a reddito medio ad aver registrato l’aumento più significativo, pari a +140,6% in quasi 30 anni. Si tratta di realtà nazionali, come Cina, India, Pakistan e Nigeria, che, oltre a essere estremamente popolose, sono quelle che stanno vivendo un processo di sviluppo dal punto di vista industriale e tecnologico. Gli analisti di Openpolis ricordano che, come rilevato dal report di Emdat, solo nel 2021 si sono registrati nel mondo 432 disastri naturali, come alluvioni, tempeste, temperature estreme, frane, incendi, terremoti e siccità, che hanno causato un totale di oltre 10 mila decessi. Numero di disastri significativamente superiore rispetto alla media del periodo 2001-2020, pari a 357 eventi ogni anno. Per ragioni geografiche, i paesi del sud del mondo, e in particolare del continente asiatico, sono i più esposti agli eventi climatici estremi. Secondo i calcoli effettuati da Oxfam, sarebbero, infatti, 7.340 gli eventi climatici estremi che hanno colpito il pianeta tra il 2000 e il 2021 e di questi più del 70% in paesi a reddito medio o basso. A ciò si aggiunge che i paesi più poveri sono strutturalmente meno capaci di gestire tali fenomeni e di riassestarsi.

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